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Rising Sounds: Un’eruzione di creatività, influenze e passioni oltre le divergenze. Amici, musicisti, sognatori. Conosciamo i WaterCrisis.

Da uno stoner puro ad un rock ricco e pieno di influenze. Un vulcano di creatività, un’amicizia quasi decennale. Ve li presentiamo oggi, per Rising Sounds. Ecco a voi, i WaterCrisis.

Primo giorno di zona arancione in Campania. Lavoro al pc per qualche ora, prima di incontrare la band da intervistare. È un lunedì iperattivo, sono in attesa di una consegna da Bartolini. Arrivano le 12:00, accendo Skype.

I Watercrisis, di fronte a me, non sono al completo, ma sono i tre membri “più anziani” del gruppo, Caterina, Francesco e Antonio. Il loro attuale batterista, Simone, si trova nei Paesi Bassi. Chiacchieriamo un po’ del più e del meno, e poi a bruciapelo inizia l’intervista, in sottofondo, si sente una tromba suonare e dall’esterno, un cane che abbaia.

Nome collettivo: WaterCrisis. Un nome, in questi tempi critici per il pianeta, dolorosamente attuale. C’era un intento particolare dietro la sua scelta?

Caterina: Anche se ci associano spesso alla tematica “siccità”, e sappiamo quanto sia importante soprattutto in questo periodo, la scelta del nome non c’entra nulla con la questione ambientale. Più che altro, è una metafora per rappresentare l’ambiente in cui ci troviamo, un po’ arido a livello di stimoli, idee, motivazione…un clima un po’ secco. Con la nostra musica, volevamo dare un contributo vero, sincero, con la speranza di tenere vivo il mondo che ci circonda.

Francesco: Il nome si avvicina di più alla sfera del nostro genere (Stoner Rock), più che alla questione ambientale. Anche se a dire la verità, adesso non facciamo più solo quello, stiamo cambiando parecchie cose. Abbiamo molte influenze diverse, proviamo a metterle insieme.

Vi presentate per Rising Sounds?

Antonio: Antonio Castaldo, bassista del gruppo, un po’ tutto fare. (Ridiamo un po’ tutti, la mia gatta Heaven prende parte alla conversazione contribuendo all’ilarità generale).

Caterina: Manager, oltre che bassista! Si occupa di marketing, social, fa tutto lui.

Antonio: Cerco di risparmiare per la band, di cui poi in realtà faccio parte anch’io. Lo faccio solo per questo in realtà!

Francesco: Sono Francesco, il chitarrista. Scrivo le canzoni. E cago il ca**o a loro due.

(Ridiamo ancora, e ho il sentore che durante quest’intervista ci divertiremo parecchio) Scrivi le canzoni da solo?

Francesco: No, assolutamente no!

Antonio: La maggior parte sì, però.

Caterina: Struttura, armonia, spesso sono opera sua.

Francesco: Anche se devo dire che ultimamente ho cambiato modo di fare. Prima era più un lavoro individuale, ora cerco di farlo insieme a loro. I testi attualmente li scrive Caterina. Prima facevamo a metà. Adesso magari dico a Caterina l’idea che ho in testa e lei scrive. Siamo diventati anche più veloci nella scrittura.

Richiesta catchy: Descrivetevi in tre parole.

Caterina: Beh, diciamo che se mi vengono in mente solo insulti è un problema. (Ridiamo tutti) Distratta, impulsiva.

Antonio: Ritardataria!

Caterina: Ma devo dirle io, le parole! (Ridiamo) Sono distratta, impulsiva, e molto sensibile.

Francesco: Io, come ho detto anche prima, sono un cagaca**o, molto irascibile, e una cosa positiva ditela voi! Non mi vengono le cose positive.

Credo sia l’imbarazzo della telecamera. (Naturalmente, come ormai da un anno e più, siamo in video-call).

Francesco: No, dai, la cosa positiva è che mi vengono molte idee. Di queste molte vengono scartate, ma poi ce c’è almeno una buona.

Antonio: E io come posso descrivermi? Allora…sono molto socievole, preciso, e intraprendente.

Okay, allora sei assunto!

Antonio: Diciamo che tra noi ci equilibriamo a vicenda.

Francesco: Siamo una sorta di fabbrica, ci completiamo.

Come si siete avvicinati alla musica?

Francesco: Io mi sono avvicinato alla musica da piccolo. Ascoltavo molta musica diversa, ma ho iniziato a suonare grazie ad un mio amico che si chiama Antonio. Non lui! (Indica Antonio, e ridiamo di nuovo) Un chitarrista. Da lì ho conosciuto Doors, Steve Ray Vaughan, AC/DC, Sum41, ed è iniziato tutto. Sono stato sempre molto affascinato dai generi rivolti verso psichedelia e blues, e cantautorato italiano.

Caterina: Le mie zie avevano un’accademia musicale, quindi ho iniziato a studiare pianoforte quando ero in terza elementare. Poi ho cominciato a studiare canto lirico, ma ero metallara dentro, e mio fratello mi ha fatto ascoltare moltissima musica. Ho iniziato a cantare musica leggera, ho studiato jazz, ma con la band ho iniziato a fare quello che mi piaceva.

Antonio: Devi sapere che di solito mi prendono sempre in giro. Nella mia famiglia, a nessuno interessa della musica. Proprio ieri mio padre mi fa “Ma lo sai che non ho mai comprato un disco?”. Beh, bene, bravo! Mio fratello mi fece ascoltare Afterhours e Verdena, e gruppi simili, ed un amico di mio fratello un giorno, mentre ascoltavo musica house, che era l’unica cosa che conoscevo, mi disse “Tieni, senti questo!”, e così ho conosciuto i Nirvana. Nirvana, Queens of the Stone Age e Nickelback, un trio strano, ma non male come inizio. Crescendo, mi sono appassionato alla musica. Ho conosciuto Francesco ed altri ragazzi che suonavano, a loro serviva un bassista. Io però volevo suonare la batteria! Ma vivo in un condominio ed è impossibile suonare la batteria in un condominio, e così mi sono “accontentato” del basso. Adesso, tornando indietro, non cambierei idea. Suonare il basso ti rende quello che ha più responsabilità in un gruppo, e questo fa anche parte della mia personalità.

Da quanto tempo suonate insieme?

Francesco: Una decina d’anni?

Caterina: Prima del 2015, mi sa. Credo sette o otto anni.

Antonio: Abbiamo sopportato Caterina per tanto tempo.

Caterina: Il sopracciglio si alza sempre di più!

Antonio: No, in realtà adesso non ti sopportiamo più! Ora ci troviamo meglio. C’erano incomprensioni caratteriali.

Francesco: Ci sono ancora, ma adesso facciamo finta di non vedere.

Caterina: Va beh, adesso vi lascio soli e me ne vado.

Antonio: Oggi secondo me siamo così uniti proprio perché parecchie volte siamo arrivati al limite. Ognuno di noi, prima o poi, ha minacciato di lasciare il gruppo. Ma mentre lo dicevamo, qualcun altro organizzava le prove per la settimana successiva.

Come vi siete conosciuti? Cosa vi ha portato alla creazione di una band?

Antonio: Dopo che mi hanno obbligato (sottolinea la parola, e ridiamo tutti nuovamente) a suonare il basso, c’era un’altra cantante. All’improvviso, se n’è andata. Io conoscevo Caterina, e non sapevo nemmeno come cantasse. Vidi un suo video su Facebook di una cover di Rolling in the deep fatta male.

Caterina: Hanno solo belle parole per me.

Antonio: Quello che ci fece confermare Caterina come cantante, fu il fatto che alle prime provò si portò dietro un’amica. Si vergognava, voleva compagnia. L’amica venne alle prove, bevve un bicchiere di vino e vomitò. Quindi da allora, ci innamorammo di entrambe.

Caterina: Praticamente, io suono con loro perché la mia amica ha vomitato. (Ridiamo) Il problema è stato trovare “la nostra voce”. All’inizio non riuscivamo ad accordarci su cosa fare, poi un giorno facemmo la cover di Muori Delay dei Verdena, mentre scrivevamo i primi inediti. Dopo questa cover venne fuori una natura molto più simile a quello che volevo esprimere.

Antonio: Venne fuori una parte di Caterina molto bella. Mi ricordo, quando la provammo, ci fermammo proprio, sorpresi, non ce l’aspettavamo.

Francesco: Oggi, ci dicono che la parte “grunge” del nostro gruppo è proprio la voce di Caterina.

Quanto è stato difficile mantenere una formazione stabile nel corso del tempo?

Antonio: Noi abbiamo avuto sempre un po’ di sfortuna coi batteristi. Adesso, il nostro batterista, Simone, è in Olanda perché è partito per l’Erasmus. Però, visto che avevamo in programma la registrazione di alcuni brani in acustico, quindi abbiamo deciso di registrare comunque e chiedere ad un altro batterista di suonare, Pasquale Renna. I risultati sono stati davvero buoni.

Francesco: Pasquale ha dato proprio un colore diverso ai brani, ma diverso nel senso giusto.

Antonio: All’inizio, avevamo paura di non riuscire a comunicare bene con un professionista. Invece le cose sono andate ben oltre alle aspettative. Anche perché Pasquale ha proposto molte cose, e a me piace molto chi ha iniziativa. Col batterista prima di Simone non c’è stato molto feeling, purtroppo. Non siamo riusciti a carburare insieme. Simone parla molto, e spesso siamo in disaccordo, ma comunque mi piace molto lo scambio di opinione.

Caterina: Ha molte idee, anche oltre la batteria. È molto più vicino a com’era la nostra formazione con Bob, il nostro vecchio batterista.

Antonio: Sì, Bob ha lasciato il gruppo prima della promozione del disco, e quindi abbiamo avuto molti problemi nella promozione. Gli dobbiamo molto comunque, perché ci ha dato uno slancio creativo. Ma ha preferito dedicarsi alla composizione, e ha seguito le sue inclinazioni.

Caterina: Invece, per quanto riguarda i rapporti tra noi tre, per quanto spesso possiamo litigare o non andare d’accordo, comunichiamo molto. Parliamo spesso, e quindi proprio per questo riusciamo a superare tutti i problemi.

Quando vi siete davvero sentiti pronti per la registrazione del vostro album Sleeping Sickness (2018)? Qual è stata la sua storia?

Francesco: Abbiamo finito i pezzi cinque giorni prima dell’uscita ufficiale dell’album.

Antonio: Sì, poco prima di consegnare la tracklist all’etichetta, ci mancavano cinque brani.

Caterina: Avevamo solo i loro titoli. Cioè, avevamo solo l’idea dei brani. Non eravamo troppo preparati, abbiamo dovuto scegliere un titolo per un brano che non esisteva. Ci siamo sentiti un po’ come quando facevamo i compiti a scuola, avevamo una traccia e dovevamo svilupparla. Uno di questi brani, poi è diventato il mio preferito dell’album.

Antonio: Abbiamo deciso di fare l’album dopo il concerto in cui abbiamo aperto i Lacuna Coil. Eravamo gasatissimi, comunicammo all’etichetta che volevamo fare il disco ma ci mancavano i brani.

Francesco: Avevamo appena fatto Slaughter.

Antonio: La figura di Bob è stata importantissima in questo senso. Suonavamo da lui, in una campagna di Avellino, e provavamo per tantissime ore. Abbiamo composto, trovato il nostro sound.

Cos’è successo dopo il lancio del disco?

Caterina: Qui è arrivata la nota dolente. Abbiamo iniziato a pubblicizzarlo, suonando in giro, ma poi Bob ha deciso di lasciare. Quindi il lavoro del disco è stato messo in stand-by. Abbiamo cambiato due batteristi nel frattempo, e adesso stiamo riprendendo un po’ quei brani. Non vogliamo perderlo, ci abbiamo lavorato molto. Poi adesso, insieme a Simone, stiamo lavorando anche a nuovi progetti. Speriamo di poterli suonare tutti molto presto.

Prima di salutarci, raccontateci qualche episodio della vostra storia di band. Riuscite a trovare un ricordo più bello ed uno più triste da condividere con noi?

Caterina: Io credo che il momento più bello per il nostro gruppo sia stato il concerto di Manduria. Non solo perché aprivamo i Lacuna Coil, ma anche perché eravamo su un palco gigante. Con tantissime persone davanti!

Francesco: Sì, è stato bellissimo arrivare lì il giorno prima, dormire in tenda, sporcarsi di sabbia.

Caterina: Invece, forse il più brutto è stato perdere Bob. Avevamo faticato un po’ per trovare un equilibrio, e poi tutto si è rotto. Però non ci siamo arresi, e adesso siamo ancora insieme, e con Simone al nostro fianco siamo veramente contenti.

Antonio: Finalmente, il nostro batterista sa dove mettere la cassa (Ridiamo tutti)

Prima di salutarci, continuiamo a chiacchierare. Quando chiudiamo la conversazione, mi sento leggera. I WaterCrisis, con la loro amicizia, la loro voglia di crederci ancora, la motivazione che è riuscita a superare tutti gli ostacoli, dimostrano a tutti che la musica è ancora viva. Che non è solo numeri, pubblicità, aridità. E la siccità metaforica che il loro nome richiama, a mio parere, questi ragariescono a sconfiggerla alla grande.

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Rising Sounds: MET, tra Roma e Den Haag, un disco da scrivere e un cambio di rotta

Dai parchi olandesi a un cambio di direzione. Da un duo ad una band. Da Utrecht ad un asse Roma-Den Haag. La storia dei MET si dirama tra due Paesi, parte dalla storia di due ragazzi che si conoscono ad Utrecht e adesso si preparano al lancio di un lavoro curato durante i mesi della pandemia. Ecco a voi la nostra intervista ad Alessandro e Marco dei MET.

Alessandro, Marco, le mie interviste iniziano sempre allo stesso modo. E quindi anche a voi chiederò innanzitutto: Come state, ragazzi?

Marco: Vai Alessandro, è il tuo turno! (Ride)

Alessandro: A posto!

Marco: Eh, io pure! Sto bene, grazie! (Ridono entrambi) Dal mio punto di vista, quest’anno l’ho preso in modo più o meno positivo. Ho preso delle decisioni che sono state distrutte, e i miei piani non sono andati come dovevano, ma nonostante tutto mi sono ricreato delle alternative. Ho deciso di ritornare in Italia, perché mi ero trasferito in Olanda per suonare, però poi il Covid ha limitato le mie possibilità, anche di conoscere altri musicisti. Allungare la mia esperienza lì senza poter fare quello che volevo, non aveva più senso. E quindi sono di nuovo qui.

Come vi siete conosciuti?

Alessandro: Al Conservatorio di Utrecht, in Erasmus, seguivamo lo stesso corso di Poliritmia avanzata, in cui eravamo scarsi entrambi. E questa è una cosa divertente perché tuttora, quando scriviamo dei brani, ci troviamo a riprendere quelle cose e ci sembra di essere ancora lì. Ma il nostro progetto non è nato subito. Il progetto è nato un annetto dopo. Marco, dopo essere tornato a Roma dall’Erasmus, è tornato a Den Haag dove abitavo io, per chiedermi delle informazioni generali sulla vita lì e si è creata questa alchimia straordinaria che ci ha portato a questo progetto.

Da cosa nasce il nome “Met”?

Marco: Perché noi ci siamo “Met”! (Ride)

Alessandro: Ci sono diverse interpretazioni, a dire la verità! In olandese, “met” significa “con”. Quindi è anche il simbolo che c’è nella nostra collaborazione. Alessandro met Marco, o Marco met Alessandro. Poi lo prendi in italiano, e può diventare una di quelle sigle che può rimanerti in testa.

Marco: La cosa bella è che però nessuno capisce il nome. La nostra pagina si chiama “Met Den Haag”, quindi, quando lo diciamo in Italia, nessuno lo capisce, e neanche in Olanda c’è stata questa comprensione immediata, perché neppure gli olandesi capivano quello che dicevamo. (Ridono entrambi)

Com’è stato essere artisti italiani di stanza all’estero, come avete percepito la comunicabilità dei vostri messaggi? Voi avete cantato in italiano, nei Paesi Bassi, cominciavate a pensare di tradurre i vostri brani, però il vostro repertorio è per lo più in italiano. Vi siete sentiti capiti?

Alessandro: Questa è la versione mia personale, e penso che in media all’olandese piaccia il suono della lingua italiana. Mi è capitato spesso di parlare con gente che mi ha detto di non essere tanto interessata alle nostre parole, quanto all’atmosfera della canzone. Ma per me è stato lo stesso, quando ascoltavo i pezzi in inglese, e non capivo cosa dicevano i testi, ma mi piaceva l’atmosfera di quei brani. E per quanto riguarda noi ho percepito lo stesso, non mi sono tanto posto il problema della comunicabilità a dire il vero.

Marco: Per me non è stato lo stesso. Io non l’ho vissuta così, la cosa che dice Alessandro la condivido. Quando mi rendevo conto che il mio messaggio non veniva capito, o comunque veniva trascurato, o comunque gli ascoltatori si affidavano solo alle espressioni di Alessandro rispetto alle parole, mi dava l’impressione di comunicare solo attraverso la mimica. Un po’ l’ho sofferta questa cosa. Io difendo molto le parole, perché le parole hanno un significato.

Alessandro: Vorrei aggiungere una cosa. Quando ho iniziato a scrivere sono diventato più consapevole delle parole. Quando il pezzo diventa qualcosa di più personale è quando nasce una frase che mi lega a lui. Il testo dà senso a tutto, a meno che non sia solo strumentale.

Marco: Allora adesso faccio io una domanda ad Alessandro. Come ti senti quando ti dicono che non hanno capito cosa volevi dire nella canzone? Da compositore, non ti dà un po’ fastidio?

Alessandro: Beh, diciamo che però il pezzo non arriverà comunque nella sua totalità. Per esempio, ci sono state delle scelte compositive che all’ascoltatore medio non arriveranno. Ogni persona in base al proprio bagaglio e cultura percepirà una parte di quello che abbiamo fatto. Però quello che a me importa è trasmettere qualcosa dal punto di vista emotivo. L’impatto emotivo è quello che rimane.

Qual è l’accoglienza che il pubblico vi ha riservato, quando vi siete esibiti?

Marco: Dare una risposta a questa domanda sarebbe un po’ precoce. È vero, abbiamo suonato nei parchi olandesi, e abbiamo cercato di diffondere la nostra musica ma è stato più uno studio per noi, per controllare le reazioni delle persone, e lavorare sul nostro progetto. Le persone che sono venute si sono divertite. Abbiamo cercato di coinvolgere quante più persone possibile.

Come nasce un vostro pezzo?

Alessandro: La parola d’ordine è discordanza. Io e Marco ogni tanto non siamo d’accordo su qualcosa, la vediamo in maniera diversa, ma una cosa che abbiamo in comune è che siamo sempre disposti ad ascoltare l’altro e metterci in discussione. Abbiamo fatto confluire le nostre energie discordanti in risultati positivi. In me e Marco vedo proprio queste energie che si scontrano ma sono sempre in movimento, e hanno una grandissima forza creatrice.

Marco: Beh, la discordanza è un po’ un’antitesi del nome del nostro gruppo, e funziona molto. “Con”, sono cose che contrastano e convergono.

Alessandro: Abbiamo lavorato spesso individualmente, ed è capitato che uno dei due iniziasse con un’idea poi sviluppata dall’altro. Abbiamo scritto con idee dell’uno fluite nell’idea dell’altro. È per questo che alcuni pezzi hanno degli sviluppi inaspettati, perché vanno a mettere insieme idee diverse. È una cosa molto positiva, che rende l’ascolto più inaspettato.

Avete mai suonato in Italia?

Marco: Abbiamo registrato l’album in Italia, e speriamo presto di poter suonare anche in concerti nostri. Stiamo aspettando che la situazione si allenti un po’.

Alessandro: io spero davvero di poter fare presto delle serate in Italia.

A quali artisti vi ispirate, in particolare?

Alessandro: la musica ascoltata nel passato influenza sempre. Si ascoltano talmente tante cose che una risposta secca sarebbe difficile. Nel panorama italiano ho scoperto nel tempo Daniele Silvestri, o anche Caparezza. Conoscevo solo le loro hit all’inizio, però poi approfondendo l’ascolto ho trovato altri brani che mi hanno permesso di apprezzare anche la loro evoluzione come artisti.

Marco: Io non ho proprio una risposta per questa domanda. Mi sento un po’ in imbarazzo, perché di solito quando ascolto musica cerco sempre di studiarci sopra, trovare nuove idee, analizzare. Prendo ispirazione da più artisti, più gruppi.

Stati d’animo è il vostro ultimo lavoro. Ci raccontate un po’ com’è nata l’idea?

Alessandro: Nel corso dei primi tre-quattro pezzi, Marco ha avuto l’illuminazione. Ha detto: sembra che stiamo descrivendo diversi stati d’animo. Cosa che al momento io non avevo realizzato. Per me ogni pezzo era un pezzo nuovo, senza pensare ad un filo conduttore.

Marco: Stati d’animo, cosa significa? Beh, bisogna vederlo anche in modo simbolico. Il filo conduttore che porta da un’emozione all’altra è il cambio di stato. In qualche modo, poteva anche trasmettere la nostra storia, di immigrati che avevano cambiato Stato. La posizione geografica, il cambio di latitudine diventa in modo figurativo un mezzo per parlare delle emozioni umane. Dalla rabbia ci si può trasferire in altre emozioni, come la tristezza, la nostalgia, e questo si può fare. Questo è quello che abbiamo provato a fare.

“Stati D’animo” infatti, è il titolo dell’album di 8 tracce sul quale abbiamo lavorato.

Poi è successo qualcosa, durante questi mesi. Mentre eravamo lì a comporre i brani, abbiamo iniziato a pensare concretamente ad una formazione diversa. Abbiamo sempre voluto avere una band, ma per questioni pratiche abbiamo deciso all’inizio di restare un duo. Poi però nel mese di agosto abbiamo deciso di ritrovarci in uno studio di registrazione romano Undercurrent Recording Studio, al fianco di Daniele Carbonelli, bassista e fonico, e Pierluigi Picchi, batterista, per tutti quei brani che avevano una matrice rock ed erano destinati ad essere suonati da un gruppo di musicisti fatti di note ed ossa.

Scivoliamo sul viale dei ricordi. Qual è il vostro ricordo più bello legato alla musica?

Alessandro: Riformulo leggermente la domanda e condivido il primo ricordo che mi è venuto in mente. E non so se è il più bello, ma è il primo che mi è venuto in mente. C’è stata una gara di karaoke che ho fatto quando avevo 18 anni e ho cantato Time is running out dei Muse. Quando ho finito il pezzo ho avuto questo grandissimo applauso del pubblico che è stato anche il mio primo applauso. L’energia del pezzo, l’adrenalina di cantarlo, quell’applauso alla fine mi hanno dato un’emozione che quella notte non mi ha lasciato dormire.

Marco: Potrei condividere anch’io il primo ricordo che ho della musica, perché è stata un’emozione che mi ha colpito parecchio. Mi ricordo che quando avevo più o meno cinque anni ho passato qualche pomeriggio a suonare pianoforte a casa di una mia zia. E suonavo note random. Ero un bambino che si annoiava, non sapevo cosa fare, e iniziai a suonare delle note che mi colpivano. Ogni tasto premuto dal mio dito aveva un impatto molto forte. Le note erano connesse alle mie emozioni. E mi ricordo che riuscivo a riconoscere quello che stavo suonando, cercavo di imitare la pubblicità della Barilla. (Ridiamo) Per anni non ho suonato, ho ripreso molto tempo dopo, e quando ho ripreso in mano la chitarra ho ritrovato quella connessione con le note.

Invece se doveste scegliere il ricordo più brutto, o più triste, quale sarebbe?

Marco: Io ho un ricordo bruttissimo, uno dei ricordi più brutti che ho. Una volta ero a lezione, dovevo fare un concerto con una big band, e dovevo dividere trenta pezzi con un altro chitarrista. Avevo studiato solo i miei pezzi. Studiai tutta la settimana, non dormii nemmeno. E quando arrivai a quella lezione, l’altro chitarrista non venne. E io mi ritrovai con tutti i pezzi da fare, ma non ero preparato, mi vergognavo tantissimo! L’insegnante si incazzò con me, fu uno dei giorni più brutti della mia vita da musicista. Però a parte quello, non mi lamento! (Ride)

Alessandro: mi viene in mente una cosa simile. Una mia amica mi disse che un gruppo di salsa cercava un pianista. E così mi sono ritrovato lì con le parti, che non avevo studiato, e sentivo le loro aspettative su di me che non riuscivo a sostenere perché non conoscevo i pezzi. Però poi ho imparato tutti i pezzi, e dopo un po’ sono andato abbastanza bene. Loro hanno aspettato che imparassi tutto il repertorio, senza pressioni. È una storia a lieto fine!

C’è qualcosa che rifareste assolutamente del vostro percorso?

Alessandro: Credo che tornerei al centro musicale di Mogol in Umbria. È stata un’esperienza positiva, di confronto con altri musicisti. La prima volta lo feci nel 2012, avevo vinto una borsa di studio mentre ero al conservatorio. Ci sono ritornato l’anno scorso e stavo pensando di tornarci anche l’anno prossimo, è stata un’esperienza davvero positiva e formativa.

Marco: Io sceglierei ancora la musica, seguirei la mia intuizione e rifarei il conservatorio. Senza cambiare idea.

E qualcosa che invece non rifareste per nulla al mondo?

Alessandro: Forse gli ultimi esami al conservatorio. Però non posso davvero rispondere a questa domanda. Perché seppure quegli ultimi esami sono stati un mezzo insuccesso, lì ho conosciuto Marco, e da lì ora ci ritroviamo a suonare insieme per questo progetto. Gli errori ti insegnano sempre qualcosa.

Marco: Ce l’ho un rimpianto, ma c’entra relativamente con la musica. Non manderei in giro i curriculum con un indirizzo olandese, perché poi sono ritornato in Italia e adesso tutte le domande sono incasinate!

Ci salutiamo promettendoci prima o poi un incontro dal vivo e non mediato da Skype, e dai soliti problemi tecnici, immancabili, sempre in agguato in questa nuova epoca delle interviste-covid. Saluto Marco che si trova tra le strade di Roma, Alessandro che è a Den Haag, e presto speriamo davvero di poterli ascoltare tra il pubblico di un loro nuovo concerto.

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