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Rising Sounds: Un’eruzione di creatività, influenze e passioni oltre le divergenze. Amici, musicisti, sognatori. Conosciamo i WaterCrisis.

Da uno stoner puro ad un rock ricco e pieno di influenze. Un vulcano di creatività, un’amicizia quasi decennale. Ve li presentiamo oggi, per Rising Sounds. Ecco a voi, i WaterCrisis.

Primo giorno di zona arancione in Campania. Lavoro al pc per qualche ora, prima di incontrare la band da intervistare. È un lunedì iperattivo, sono in attesa di una consegna da Bartolini. Arrivano le 12:00, accendo Skype.

I Watercrisis, di fronte a me, non sono al completo, ma sono i tre membri “più anziani” del gruppo, Caterina, Francesco e Antonio. Il loro attuale batterista, Simone, si trova nei Paesi Bassi. Chiacchieriamo un po’ del più e del meno, e poi a bruciapelo inizia l’intervista, in sottofondo, si sente una tromba suonare e dall’esterno, un cane che abbaia.

Nome collettivo: WaterCrisis. Un nome, in questi tempi critici per il pianeta, dolorosamente attuale. C’era un intento particolare dietro la sua scelta?

Caterina: Anche se ci associano spesso alla tematica “siccità”, e sappiamo quanto sia importante soprattutto in questo periodo, la scelta del nome non c’entra nulla con la questione ambientale. Più che altro, è una metafora per rappresentare l’ambiente in cui ci troviamo, un po’ arido a livello di stimoli, idee, motivazione…un clima un po’ secco. Con la nostra musica, volevamo dare un contributo vero, sincero, con la speranza di tenere vivo il mondo che ci circonda.

Francesco: Il nome si avvicina di più alla sfera del nostro genere (Stoner Rock), più che alla questione ambientale. Anche se a dire la verità, adesso non facciamo più solo quello, stiamo cambiando parecchie cose. Abbiamo molte influenze diverse, proviamo a metterle insieme.

Vi presentate per Rising Sounds?

Antonio: Antonio Castaldo, bassista del gruppo, un po’ tutto fare. (Ridiamo un po’ tutti, la mia gatta Heaven prende parte alla conversazione contribuendo all’ilarità generale).

Caterina: Manager, oltre che bassista! Si occupa di marketing, social, fa tutto lui.

Antonio: Cerco di risparmiare per la band, di cui poi in realtà faccio parte anch’io. Lo faccio solo per questo in realtà!

Francesco: Sono Francesco, il chitarrista. Scrivo le canzoni. E cago il ca**o a loro due.

(Ridiamo ancora, e ho il sentore che durante quest’intervista ci divertiremo parecchio) Scrivi le canzoni da solo?

Francesco: No, assolutamente no!

Antonio: La maggior parte sì, però.

Caterina: Struttura, armonia, spesso sono opera sua.

Francesco: Anche se devo dire che ultimamente ho cambiato modo di fare. Prima era più un lavoro individuale, ora cerco di farlo insieme a loro. I testi attualmente li scrive Caterina. Prima facevamo a metà. Adesso magari dico a Caterina l’idea che ho in testa e lei scrive. Siamo diventati anche più veloci nella scrittura.

Richiesta catchy: Descrivetevi in tre parole.

Caterina: Beh, diciamo che se mi vengono in mente solo insulti è un problema. (Ridiamo tutti) Distratta, impulsiva.

Antonio: Ritardataria!

Caterina: Ma devo dirle io, le parole! (Ridiamo) Sono distratta, impulsiva, e molto sensibile.

Francesco: Io, come ho detto anche prima, sono un cagaca**o, molto irascibile, e una cosa positiva ditela voi! Non mi vengono le cose positive.

Credo sia l’imbarazzo della telecamera. (Naturalmente, come ormai da un anno e più, siamo in video-call).

Francesco: No, dai, la cosa positiva è che mi vengono molte idee. Di queste molte vengono scartate, ma poi ce c’è almeno una buona.

Antonio: E io come posso descrivermi? Allora…sono molto socievole, preciso, e intraprendente.

Okay, allora sei assunto!

Antonio: Diciamo che tra noi ci equilibriamo a vicenda.

Francesco: Siamo una sorta di fabbrica, ci completiamo.

Come si siete avvicinati alla musica?

Francesco: Io mi sono avvicinato alla musica da piccolo. Ascoltavo molta musica diversa, ma ho iniziato a suonare grazie ad un mio amico che si chiama Antonio. Non lui! (Indica Antonio, e ridiamo di nuovo) Un chitarrista. Da lì ho conosciuto Doors, Steve Ray Vaughan, AC/DC, Sum41, ed è iniziato tutto. Sono stato sempre molto affascinato dai generi rivolti verso psichedelia e blues, e cantautorato italiano.

Caterina: Le mie zie avevano un’accademia musicale, quindi ho iniziato a studiare pianoforte quando ero in terza elementare. Poi ho cominciato a studiare canto lirico, ma ero metallara dentro, e mio fratello mi ha fatto ascoltare moltissima musica. Ho iniziato a cantare musica leggera, ho studiato jazz, ma con la band ho iniziato a fare quello che mi piaceva.

Antonio: Devi sapere che di solito mi prendono sempre in giro. Nella mia famiglia, a nessuno interessa della musica. Proprio ieri mio padre mi fa “Ma lo sai che non ho mai comprato un disco?”. Beh, bene, bravo! Mio fratello mi fece ascoltare Afterhours e Verdena, e gruppi simili, ed un amico di mio fratello un giorno, mentre ascoltavo musica house, che era l’unica cosa che conoscevo, mi disse “Tieni, senti questo!”, e così ho conosciuto i Nirvana. Nirvana, Queens of the Stone Age e Nickelback, un trio strano, ma non male come inizio. Crescendo, mi sono appassionato alla musica. Ho conosciuto Francesco ed altri ragazzi che suonavano, a loro serviva un bassista. Io però volevo suonare la batteria! Ma vivo in un condominio ed è impossibile suonare la batteria in un condominio, e così mi sono “accontentato” del basso. Adesso, tornando indietro, non cambierei idea. Suonare il basso ti rende quello che ha più responsabilità in un gruppo, e questo fa anche parte della mia personalità.

Da quanto tempo suonate insieme?

Francesco: Una decina d’anni?

Caterina: Prima del 2015, mi sa. Credo sette o otto anni.

Antonio: Abbiamo sopportato Caterina per tanto tempo.

Caterina: Il sopracciglio si alza sempre di più!

Antonio: No, in realtà adesso non ti sopportiamo più! Ora ci troviamo meglio. C’erano incomprensioni caratteriali.

Francesco: Ci sono ancora, ma adesso facciamo finta di non vedere.

Caterina: Va beh, adesso vi lascio soli e me ne vado.

Antonio: Oggi secondo me siamo così uniti proprio perché parecchie volte siamo arrivati al limite. Ognuno di noi, prima o poi, ha minacciato di lasciare il gruppo. Ma mentre lo dicevamo, qualcun altro organizzava le prove per la settimana successiva.

Come vi siete conosciuti? Cosa vi ha portato alla creazione di una band?

Antonio: Dopo che mi hanno obbligato (sottolinea la parola, e ridiamo tutti nuovamente) a suonare il basso, c’era un’altra cantante. All’improvviso, se n’è andata. Io conoscevo Caterina, e non sapevo nemmeno come cantasse. Vidi un suo video su Facebook di una cover di Rolling in the deep fatta male.

Caterina: Hanno solo belle parole per me.

Antonio: Quello che ci fece confermare Caterina come cantante, fu il fatto che alle prime provò si portò dietro un’amica. Si vergognava, voleva compagnia. L’amica venne alle prove, bevve un bicchiere di vino e vomitò. Quindi da allora, ci innamorammo di entrambe.

Caterina: Praticamente, io suono con loro perché la mia amica ha vomitato. (Ridiamo) Il problema è stato trovare “la nostra voce”. All’inizio non riuscivamo ad accordarci su cosa fare, poi un giorno facemmo la cover di Muori Delay dei Verdena, mentre scrivevamo i primi inediti. Dopo questa cover venne fuori una natura molto più simile a quello che volevo esprimere.

Antonio: Venne fuori una parte di Caterina molto bella. Mi ricordo, quando la provammo, ci fermammo proprio, sorpresi, non ce l’aspettavamo.

Francesco: Oggi, ci dicono che la parte “grunge” del nostro gruppo è proprio la voce di Caterina.

Quanto è stato difficile mantenere una formazione stabile nel corso del tempo?

Antonio: Noi abbiamo avuto sempre un po’ di sfortuna coi batteristi. Adesso, il nostro batterista, Simone, è in Olanda perché è partito per l’Erasmus. Però, visto che avevamo in programma la registrazione di alcuni brani in acustico, quindi abbiamo deciso di registrare comunque e chiedere ad un altro batterista di suonare, Pasquale Renna. I risultati sono stati davvero buoni.

Francesco: Pasquale ha dato proprio un colore diverso ai brani, ma diverso nel senso giusto.

Antonio: All’inizio, avevamo paura di non riuscire a comunicare bene con un professionista. Invece le cose sono andate ben oltre alle aspettative. Anche perché Pasquale ha proposto molte cose, e a me piace molto chi ha iniziativa. Col batterista prima di Simone non c’è stato molto feeling, purtroppo. Non siamo riusciti a carburare insieme. Simone parla molto, e spesso siamo in disaccordo, ma comunque mi piace molto lo scambio di opinione.

Caterina: Ha molte idee, anche oltre la batteria. È molto più vicino a com’era la nostra formazione con Bob, il nostro vecchio batterista.

Antonio: Sì, Bob ha lasciato il gruppo prima della promozione del disco, e quindi abbiamo avuto molti problemi nella promozione. Gli dobbiamo molto comunque, perché ci ha dato uno slancio creativo. Ma ha preferito dedicarsi alla composizione, e ha seguito le sue inclinazioni.

Caterina: Invece, per quanto riguarda i rapporti tra noi tre, per quanto spesso possiamo litigare o non andare d’accordo, comunichiamo molto. Parliamo spesso, e quindi proprio per questo riusciamo a superare tutti i problemi.

Quando vi siete davvero sentiti pronti per la registrazione del vostro album Sleeping Sickness (2018)? Qual è stata la sua storia?

Francesco: Abbiamo finito i pezzi cinque giorni prima dell’uscita ufficiale dell’album.

Antonio: Sì, poco prima di consegnare la tracklist all’etichetta, ci mancavano cinque brani.

Caterina: Avevamo solo i loro titoli. Cioè, avevamo solo l’idea dei brani. Non eravamo troppo preparati, abbiamo dovuto scegliere un titolo per un brano che non esisteva. Ci siamo sentiti un po’ come quando facevamo i compiti a scuola, avevamo una traccia e dovevamo svilupparla. Uno di questi brani, poi è diventato il mio preferito dell’album.

Antonio: Abbiamo deciso di fare l’album dopo il concerto in cui abbiamo aperto i Lacuna Coil. Eravamo gasatissimi, comunicammo all’etichetta che volevamo fare il disco ma ci mancavano i brani.

Francesco: Avevamo appena fatto Slaughter.

Antonio: La figura di Bob è stata importantissima in questo senso. Suonavamo da lui, in una campagna di Avellino, e provavamo per tantissime ore. Abbiamo composto, trovato il nostro sound.

Cos’è successo dopo il lancio del disco?

Caterina: Qui è arrivata la nota dolente. Abbiamo iniziato a pubblicizzarlo, suonando in giro, ma poi Bob ha deciso di lasciare. Quindi il lavoro del disco è stato messo in stand-by. Abbiamo cambiato due batteristi nel frattempo, e adesso stiamo riprendendo un po’ quei brani. Non vogliamo perderlo, ci abbiamo lavorato molto. Poi adesso, insieme a Simone, stiamo lavorando anche a nuovi progetti. Speriamo di poterli suonare tutti molto presto.

Prima di salutarci, raccontateci qualche episodio della vostra storia di band. Riuscite a trovare un ricordo più bello ed uno più triste da condividere con noi?

Caterina: Io credo che il momento più bello per il nostro gruppo sia stato il concerto di Manduria. Non solo perché aprivamo i Lacuna Coil, ma anche perché eravamo su un palco gigante. Con tantissime persone davanti!

Francesco: Sì, è stato bellissimo arrivare lì il giorno prima, dormire in tenda, sporcarsi di sabbia.

Caterina: Invece, forse il più brutto è stato perdere Bob. Avevamo faticato un po’ per trovare un equilibrio, e poi tutto si è rotto. Però non ci siamo arresi, e adesso siamo ancora insieme, e con Simone al nostro fianco siamo veramente contenti.

Antonio: Finalmente, il nostro batterista sa dove mettere la cassa (Ridiamo tutti)

Prima di salutarci, continuiamo a chiacchierare. Quando chiudiamo la conversazione, mi sento leggera. I WaterCrisis, con la loro amicizia, la loro voglia di crederci ancora, la motivazione che è riuscita a superare tutti gli ostacoli, dimostrano a tutti che la musica è ancora viva. Che non è solo numeri, pubblicità, aridità. E la siccità metaforica che il loro nome richiama, a mio parere, questi ragariescono a sconfiggerla alla grande.

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SPECIALE RISING SOUNDS: Il Club 33 giri, culla della musica emergente

Quando abbiamo scelto di dare vita a Rising Sounds, nei mesi scorsi, l’abbiamo fatto per un semplice motivo: ognuna di noi è fermamente convinta che la musica possa continuare a vivere, a dispetto delle molte (e, purtroppo, veritiere) teorie che la vorrebbero ormai sul viale del tramonto.

Qualcuno potrebbe obiettarci che credere ancora nella musica nuova sarebbe un po’ troppo idealista, ma noi risponderemmo che senza ideali, l’esistenza su questo pianeta si ridurrebbe alla sopportazione passiva dei giorni che si susseguono. Rising Sounds, da parte nostra, era uno spazio dedicato esclusivamente alle idee più fresche, più nuove, ai sogni di chi, come noi, nonostante tutto ci crede ancora.

Perché questa premessa lunga e forse poco catchy? Beh, perché per il primo numero di Rising Sounds di questa nuova stagione abbiamo incontrato qualcuno che come noi ci crede ancora, e che lotta per tenere in vita la musica anche in una realtà abbastanza complessa come quella del Sud dell’Italia.

Roberta Cacciapuoti è la direttrice artistica del Club 33 giri, un collettivo giovane di Santa Maria Capua Vetere, nella provincia di Caserta, che si impegna a tenere vive le arti e il senso di comunità da esse generato. Abbiamo scambiato quattro chiacchiere, chiedendole di raccontarci qualcosa sul loro progetto, che diventa anche culla della musica emergente.

Ciao Roberta, la mia domanda di rito, prima di cominciare ogni intervista è: Come stai?

Mah, guarda, ieri sera ho mangiato un po’ pesante… (Ridiamo, rompendo il ghiaccio all’inizio di ogni incontro così, da botta e risposta.) Fortunatamente sto bene, anche se è un periodo strano, molto particolare. La cosa importante in questa fase è riuscire ancora a fare le cose che ci piacciono.

Questo numero di Rising Sounds è leggermente diverso dagli altri. Perché oggi il nostro protagonista non è un singolo gruppo o artista emergente, ma una culla di artisti emergenti. Com’è nata l’idea del Club 33 giri?

Ti risponderò a questa domanda, anche se quando il Club è nato, io non c’ero. L’associazione è stata fondata nel 2012. Molto banalmente, si voleva creare uno spazio che in quel momento mancava ai ragazzi di Santa Maria, e di Caserta in generale. C’era l’esigenza di avere un posto nel quale poter suonare e far suonare i gruppi dei nostri amici, o guardare film, organizzare piccoli eventi, scambiare opinioni e farci quattro chiacchiere. L’idea era quella di creare uno spazio di condivisione, aggregazione, di cui sentivamo davvero bisogno nel nostro territorio. Purtroppo, la nostra terra, soprattutto dal punto di vista culturale, non ha mai offerto tantissimo, soprattutto ai giovani. E quindi, molto semplicemente, invece di cercare questo spazio fuori dalla città, si è creato al suo interno.

È proprio il caso di dire Homo Faber.

Sì, assolutamente. È chiaro che lo spazio è stato creato in base alle nostre esigenze, e negli anni c’è stato un grande ricambio all’interno del collettivo. Molti dei ragazzi che hanno fondato il club, chi per volontà, chi per necessità, sono andati fuori, cosa che ha comportato il subentro di nuove persone. Però quello che ho notato, che notiamo in generale, è che l’associazione resta sempre e comunque un punto di riferimento. Chi ritorna a casa, ritorna al Club. Non solo dal punto di vista “culturale”, considerando che non abbiamo mai avuto la pretesa di voler fare cultura, ma di condivisione. È quello che abbiamo voluto fare, sopra ogni cosa. l’associazione è diventata un punto di riferimento per la musica, per l’arte, per il cinema, ma soprattutto umanamente. È quella la parte più importante per noi.  

Adesso quante persone collaborano alla gestione del Club?

Il direttivo è composto da più di 20 persone. E chiaramente ci sono i collaboratori che si aggiungono durante il festival, e in quel periodo arriviamo anche alla cinquantina di persone.

Wow. Bisognerà mettere d’accordo diverse teste, immagino.

Sì, ma anche quello è il bello dell’associazione. Secondo me lo scambio di idee e la diversità che c’è tra noi sono i nostri punti di forza. Inevitabilmente, essere tanti ci arricchisce per forza di cose.

Più o meno, quanti artisti avete accolto sul vostro palco?

Abbiamo organizzato circa 200 concerti dall’inizio. In otto anni, si parla di almeno 150 artisti, tantissimi. Chiaramente, per forza di cose, la maggior parte degli artisti che abbiamo ospitato proveniva dalla Campania. Però, negli anni abbiamo provato anche a fare un po’ di scouting a livello nazionale, ospitando artisti anche provenienti da altre regioni. Sono stati delle scommesse, ma è questo il bello di avere un’associazione libera. Non dovendo fare lucro, noi possiamo utilizzare i nostri fondi anche per scommettere sugli artisti, provando a fare qualcosa di nuovo. Quando abbiamo trovato artisti che ci piacevano, abbiamo provato ad organizzare concerti. E il più delle volte questi concerti si sono rivelati delle sommesse vinte, il pubblico ha risposto molto bene.

Come funziona, quindi, la vostra selezione? Gli artisti si propongono o siete sempre voi a contattarli?

Un primo filtro lo faccio in prima persona. Arrivano proposte da agenzie o dagli artisti stessi, ed io, che mi occupo della direzione artistica, faccio una “scrematura”, tra virgolette, sempre basandomi un po’ sui nostri gusti e su quelli del pubblico che, ormai, abbiamo imparato a conoscere. Quello che pensiamo possa piacere e quello che riteniamo più originale, promettente. Dopodiché, presento una rosa di artisti al direttivo e da lì decidiamo insieme i passi successivi, anche in base alle possibilità economiche del momento. Tutte le decisioni che prendiamo, come associazioni, le prendiamo collettivamente.

La vostra è un’organizzazione molto particolare. Non c’è un leader che ha l’ultima parola. Sono davvero decisioni prese in comune, è notevole.

Sì, aiuta anche il fatto che ognuno di noi ha le proprie competenze e professionalità. Negli anni, io per esempio mi sono specializzata in questo ambito e concretamente faccio la direzione artistica, però le decisioni alla fine le prendiamo insieme. In ogni ambito è così, per la grafica, per il cinema, ognuno ha un suo ruolo all’interno del collettivo ma ci interfacciamo sempre.

Probabilmente, questa vostra diversità all’interno del direttivo può aver rappresentato la vostra colonna. Il Club ha una storia lunga, altre realtà del territorio non sono sopravvissute tanto quanto la vostra.

Sì, considerando che all’inizio del Club eravamo più liberi, e adesso gestire l’associazione diventa più complesso. Ma nonostante questo, nonostante anche la distanza di alcuni membri che seguono le nostre vicende da lontano, lo zoccolo duro è stata la nostra diversità. E un’altra cosa che ci ha tenuto in vita è stata la voglia di mantenere vivo il club. Perderlo ci avrebbe fatto stare male. Volevamo farlo, e l’abbiamo fatto. Anche se non è stato sempre facile.

Mi chiedevo proprio questo. Quant’è stato difficile mantenere alta la voglia di fare?

Credo sia inevitabile che ogni passione, come ogni amore, richieda sforzi e sacrifici. In otto anni abbiamo visto di tutto e superato di tutto, e non è stato facile. Abbiamo avuto alti e bassi, ma alla fine abbiamo trovato sempre una motivazione per continuare, andare avanti. Volevamo conservare il nostro posto sicuro. Un luogo nostro. In cui potevamo esprimerci, e avere uno spazio in cui trovare persone che ti supportano, ti ascoltano, e questo ci ha dato la spinta per proseguire. Il nostro obiettivo è stato sempre molto chiaro, non volevamo fare lucro, ma avere un palco sul quale fare esprimere noi e chi ruota attorno alla nostra associazione. Abbiamo fatto rete, collaborato con molte realtà del territorio come il Teatro Civico, la Libreria Spartaco di Santa Maria. Nel nostro territorio, se non si fa rete non si va avanti. Noi abbiamo sempre cercato di collaborare con il più alto numero di persone, e proviamo a fare calendari che non vadano in conflitto tra loro.

Nell’ultimo anno, anche grazie al Lockdown, ironia della sorte, siamo entrati nella rete di Keep On, un’associazione di categoria che si occupa dei Live Club e dei festival. Tramite i ragazzi di Keep On abbiamo avuto la possibilità di interfacciarci con realtà come la nostra ma provenienti da tutti i posti di Italia, da Torino a Palermo. Durante il Lockdown abbiamo organizzato tutti insieme dirette streaming, e tutti i giorni per mezz’ora abbiamo avuto una diretta musicale. Tutto questo grazie a Keep On che ha messo in piedi questa iniziativa.

Ho notato che in questo periodo il Club ha aperto una raccolta fondi. Ti va di parlarcene un po’?

Erano un po’ di anni che avevamo in mente di dare il via ad una campagna di crowfunding, soprattutto per finanziare il nostro festival, La Musica Può Fare. Però, alla fine, non abbiamo mai avuto davvero bisogno di farla perché il festival è riuscito sempre a sostenersi da sé. Ma stavolta, dopo la chiusura, ci siamo visti un po’ costretti. Siamo chiusi da marzo e concretamente non sapremo quando potremo riaprire. Bisognerà monitorare la situazione, e vedere quali saranno le direttive istituzionali. Chiaramente, però, ci sono delle spese che restano e lo scopo della campagna è per l’appunto finanziare queste spese e le attività di ripartenza. Speriamo di riuscire a raggiungere quest’obiettivo tramite le donazioni. Produzioni Dal Basso ci è stata molto vicina, tramite Keep On. C’è un tutor che ci ha seguito, dato consigli, e al momento la campagna è quasi a metà. Non sappiamo se riusciremo a raggiungere la cifra. Abbiamo volutamente puntato in alto, per un’ulteriore scommessa. Il motto della campagna è “Play Together”, insieme è più bello, per noi. E il sottotitolo è “Teniamo accesa la musica”. Abbiamo sentito tantissimo la mancanza dei concerti quest’anno. Io vado a circa cento concerti all’anno, e perderli tutti è stato un trauma. Vogliamo riaccendere questi palchi.

Cosa avete in programma, quindi, per il prossimo futuro?

Per il momento vogliamo recuperare i live che abbiamo dovuto annullare a marzo e aprile. Per dirtene alcuni, quello di Katres insieme a Micaela Tempesta, due cantautrici campane bravissime, o quello dei Sex Pizzul, una band fiorentina che è tra le nostre più recenti scoperte. Tutta una serie di live in programma che sono saltati, e poi ricominceremo a programmare con il nuovo.

Parliamo del vostro festival, La Musica Può Fare. Quest’anno avete dovuto rinunciare anche a quello. Emotivamente com’è stato?

Non fare il festival ha comportato un lutto emotivo. Dopo otto anni, non farlo è stato particolarmente triste. Oltre che dispiacere per il fatto che una parte del ricavato del festival è sempre stata destinata a una realtà sociale e solidale, mentre un’altra parte del ricavato copriva le spese di gestione durante i mesi di chiusura estiva. Chiaramente, non poter fare il festival ha comportato l’impossibilità di sostenere alcune spese. Siamo estremamente grati per l’affetto e il sostegno che stiamo ricevendo in questo periodo, attraverso la campagna. L’affetto non è mai scontato, ed è sempre bello riceverlo. Negli anni tantissimi artisti hanno voluto suonato da noi, hanno presentato per la prima volta dei dischi da noi, hanno condiviso delle cose bellissime. Si è creata una rete d’amore.

E adesso ti chiedo di raccontarmi l’episodio più brutto capitato al Club.

Un paio di volte ci siamo allagati. Fortunatamente questa cosa ora non succede più. Quando però succedeva, era davvero un disastro. Dovevamo rimontare il palco, asciugare le pedane di legno. Qualche volta abbiamo dovuto buttare roba non recuperabile. Questi ricordi sono abbastanza traumatici.

E invece qual è stata la cosa più bella mai accaduta?

Quando la serata va bene e le persone si divertono, è sempre bellissimo. Ma sicuramente uno dei ricordi più belli che rimane nella storia dell’associazione è il primo concerto di Santi, Poeti e Navigatori, che hanno organizzato Joseph Foll, Blindur e Lelio Morra, tre amici fantastici dell’associazione. Fu un concerto organizzato ad hoc per il club, mai più ripetuto. È uno dei ricordi più belli. Una festa, ci siamo divertiti tantissimo. C’erano tutti gli amici, persone da fuori, un concerto bellissimo.

Ti chiedo una cosa leggermente provocatoria. Avete organizzato molti concerti e conosciuto tantissime persone. Vi siete mai pentiti di aver collaborato con qualcuno?

In realtà pentiti no. Inevitabilmente, musicisti ed artisti sono esseri umani. Quindi, come tutti, può esserci alchimia oppure no. Ogni esperienza è stata fonte di ricchezza e ci ha insegnato qualcosa per la volta successiva. Negli anni l’associazione ha stretto rapporti con alcuni artisti più che con altri, ma per inclinazioni naturali. La maggior parte dei musicisti con cui abbiamo collaborato è rimasta in buoni rapporti con noi.

Beh, Roberta, la nostra intervista è finita e sono davvero felice, è stato bellissimo parlare con te. Quello che fate è davvero incredibile, e vedere che combattete per le cose importanti e fare vostri i sogni degli altri ci riempie di orgoglio. Cosa vuoi dire per concludere questa chiacchierata?

Voglio innanzitutto ringraziare tutte le persone che ci sostengono da anni e ci supportano, e speriamo di poter allargare ancora di più la nostra famiglia. Chiunque si voglia avvicinare ad una realtà come la nostra, è sempre il benvenuto.

Sito del club: Club33giri

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