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40 anni di The Game: i Queen e l’album della svolta

Accadde oggi, ma 40 anni fa: i Queen pubblicano The Game, un album che ha segnato la musica pop degli anni 80. Tra i brani più amati Another One Bites the Dust

Probabilmente, quando i Queen pubblicavano il loro ottavo album in studio, non immaginavano minimamente che quello sarebbe stato il momento della svolta. Il 30 giugno 1980 usciva The Game, il disco che avrebbe segnato la musica rock britannica (e mondiale) per tutto il decennio successivo.

Dopo aver ridefinito i canoni del suono e aver spinto le regole della stravaganza e dell’immaginazione oltre l’asticella del consentito, i Queen si erano aggiudicati definitivamente il titolo di “reali” del pop. Con The Game faranno qualcosa che nessuno si sarebbe mai aspettato da loro: useranno il sintetizzatore. Fino a quel momento infatti Freddie Mercury, Brian May, John Deacon e Roger Taylor si erano rifiutati di farlo, rivendicando con orgoglio la genuinità della loro musica e la complessità delle composizioni strumetali – spesso rivoluzionarie!

Con The Game, invece, si convertono (forse per gioco?) ai synth e l’effetto è stupefacente: dal rock acustico e dal sapore Fifties di Crazy Little Things Called Love, alle melodie funk e moderne di Another One Bites the Dust, i Queen scalano le classifiche di mezzo mondo raggiungendo anche il mercato del R&B, fino a quel momento a loro sconosciuto. Ma con il successo arrivano inesorabili anche le perplessità della critica, che attacca il gruppo sia sul piano musicale sia dell’immagine.

Il tempo ha dimostrato che i Queen tutto sommato avevano ragione: pur non rappresentando il meglio dei fantastici quattro, The Game è riuscito a imporsi come l’album della svolta elettronica, influenzando non solo la musica di quegli anni ma anche i lavori successivi della band.

Track list

1 Play the Game – 3:33
2 Dragon Attack – 4:19
3 Another One Bites the Dust – 3:32
4 Need Your Loving Tonight – 2:49
5 Crazy Little Thing Called Love – 2:48
6 Rock It (Prime Jive) – 4:33
7 Don’t Try Suicide – 3:52
8 Sail Away Sweet Sister (To the sister I never had) – 3:33
9 Coming Soon – 2:51
10 Save Me – 3:49

E voi cosa ne pensate? Quale tra queste canzoni è la vostra preferita?

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20 anni di tormentoni estivi: 2000/2005

C’è stato un tempo in cui le nostre estati erano scandite dalla pubblicità del cornetto Algida, dalle suonerie improbabili per i Nokia 3310 e dal Festivalbar. Megan Gale turbava il sonno degli italiani sulle note di Maria nel celebre spot della Omnitel che intanto vendeva miliardi di Summer Card, dando la possibilità a noi adolescenti di inviare centinaia di SMS al ragazzo o alla ragazza del momento. Avreste mai pensato che un giorno avremmo provato nostalgia per tutto questo?

Noi di Smells Like Queen Spirit Mag abbiamo deciso di farvi fare un tuffo nel passato e di dedicare quattro articoli ai tormentoni estivi degli ultimi vent’anni, iniziando dagli anni che vanno dal 2000 al 2005. Siete pronti? Il viaggio ha inizio!

2000
Abbiamo detto addio al walkman e dato il benvenuto ai cd, che iniziavano timidamente a farsi largo sulle bancarelle. Quell’anno ci siamo scatenati con Billy More sulle note di Up&Down, siamo stati sedotti dal timbro di voce di Tom Jones con la sua Sex Bomb e abbiamo rockeggiato con i Bon Jovi urlando It’s My Life. E se vi dico Vamos a bailar? Paola e Chiara hanno tenuto testa a Depende degli Jarabe De Palo, mentre il romano Piotta conquistava le classifiche italiche con La mossa del giaguaro.
Top tormentone? La banana, Dos Morenos.

2001
I balli di gruppo in salsa latina diventavano dei must di stagione, creando tormentoni celebri come Candela di Noelia. La minuta Kylie Minogue invece era decisa a mantenere il primato in classifica durante tutto l’anno con Can’t get you out of my head (ovvero la la la). Perché dopotutto, una regola base del tormentone è creare una hit con parole semplici e immediate . E di certo Valeria Rossi lo aveva capito benissimo, visto il successo ottenuto con il suo primo singolo Tre parole. Ma quell’ anno eravamo in fissa anche con La mia signorina di Neffa e Boy Band dei Velvet.
Top Tormentone? http://www.mipiacitu, Gazosa.

2002
In Italia, mentre Gianluca Grignani si inimicava i fan con una delle sue peggiori canzoni, L’aiuola, Tiziano Ferro diventava sempre più amato e popolare con la hit estiva Rosso Relativo. Ja sei namorar dei Tribalistas era la mia preferita, ma non disprezzavo la cantante colombiana Shakira che si faceva sempre di più largo, a colpi di fianchi, sulle note di Whenever Wherever.
Top tormentone? Sicuramente Asereje delle Las Ketchup, la canzone più nonsense di sempre.

2003
È stato l’ anno in cui Francesco Facchinetti si faceva chiamare Dj Francesco e andava allo sbaraglio cantando La canzone del capitano con una kitchissima bandana da pirata. Oltreoceano le cose non andavano meglio… vi ricordate Dj Bobo con Chihuahua? Ma per fortuna c’erano gli Jarabe De Palo con Bonito.
Tenetevi forte per il top tormentone: Obsesion degli Aventura. Il male.

2004
I Blue cantavano in italiano la dolcissima A chi mi dice ma a farci scatenare ci pensava lui, Caparezza, con Vengo dalla luna. L’ urlatrice bionda e occhialuta, Anastacia, cantava Left Outside Alone e Luca Dirisio ci invitava alla Calma e sangue freddo. Is It ‘cos I’m cool? era la domanda fissa di Mousse T. , ma come dimenticare la censurata Fuck it di Eamon, di cui esiste anche la versione italiana!
Top tormentone? Dragonstea Din Tei di Haiducii.

2005
Quell’ anno furono davvero tantissimi i tormentoni radiofonici: Estate dei Negramaro si aggiudicò il titolo di canzone da gita scolastica, ma anche Semplicemente degli Zero Assoluto era una delle più amate. In Italia spopolavano gli Sugarfree con Cleptomania e tutti impazzivano per Jovanotti e la sua Tanto tanto tanto. I Negrita cantavano Rotolando verso sud e tra le hit estive più amate c’ era Juanes con La camisa negra.
Top tormentone? Qui non ho avuto dubbi. Il posto d’ onore va a Daddy Yankee con Gasolina, un brano che di fatto non ha mai smesso di essere un tormentone.

E ora tocca a voi: quale altra hit estiva di quegli anni ricordate con affetto e nostalgia? Venerdì prossimo passeremo in rassegna gli anni che vanno dal 2006 al 2010.

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Rising Sounds: Saverio D’Andrea

Rising Sounds è la rubrica di SLQS dedicata agli artisti emergenti!

Che Saverio D’Andrea fosse un cantautore davvero in gamba lo sapevo già da quando ho ascoltato per la prima volta una sua canzone, nel 2017. Ma solo quando ho avuto la possibilità di intervistarlo mi sono resa conto di trovarmi di fronte a una persona speciale: umile, colto e innamorato del suo mestiere. Nel 2019 è uscito il suo primo disco, Anatomia di una colluttazione, prodotto da Valter Sacripanti per l’etichetta Isola Tobia Label. Si tratta di un lavoro di gestazione durato anni, pianificato e vissuto momento per momento. Un disco d’esordio che esprime appieno la personalità trascinante del musicista campano e in cui potrete ritrovare persino voi stessi.

Nel 1996 eri in quarta elementare e hai scritto la tua prima canzone. Eh si! Mi pare di ricordare che il titolo fosse “L’amore sotto la pioggia”. Tuttora conservo dei resti di quelle prime canzoni, filastrocche e poesie, ho iniziato davvero prestissimo! Mi venivano in mente anche dei motivetti, ma non sapendo come suonarli, registravo tutte le melodie su un walkman. Diciamo che in quella prima fase si trattava di canzoni che stavano perlopiù nella mia testa.

Insomma sei stato un bambino prodigio. Non direi! (ride) Non sono stato particolarmente disciplinato nello studio della musica… a 5 anni ho preso le prime lezioni di violino ma dopo 7 anni ho abbandonato; però una cosa che non mi ha mai abbandonato è la scrittura: non ricordo la mia vita senza scrivere canzoni! Per me è il modo più naturale di esprimere quello che ho dentro.

C’è un episodio in particolare che ricordi, legato al momento in cui hai deciso che la musica sarebbe stata la tua strada? Per me la musica è sempre stato un punto fermo, non è mai stata una scelta, fa parte di me. Qualsiasi cosa io faccia è sempre la dimensione nella quale mi esprimo meglio. Nel corso del tempo ho iniziato a lavorare come insegnante e questo mi ha permesso di accumulare delle risorse da investire proprio nella musica; ma anche nel mio lavoro da insegnante non posso farne a meno: quando lavoro con le mie classi attingo sempre dalla musica perché mi viene davvero naturale.

Oltre a essere un musicista sei anche un linguista e dai tuoi testi si percepisce un’ accurata ricerca linguistica nella scelta delle parole. Però tu scrivi anche in inglese e spagnolo. Quale tra queste lingue ti da più soddisfazione? Attualmente scrivo in italiano perché sono arrivato a un tipo di scrittura molto “realista”, nel senso di una scrittura legata ai dettagli della quotidianità e mi viene naturale farlo nella mia lingua madre. In passato ho scritto tanto in inglese e a volte in spagnolo, non solo per me stesso ma anche per alcuni artisti emergenti che me lo hanno chiesto. Ogni lingua contiene in sé un mondo musicale proprio e la sfida è quella di tradurre in musica un testo e una melodia che hanno già un impianto preciso nella lingua di partenza. Gli adattamenti testuali non sono facili, ma a me diverte farli proprio per questo.

Nel 2019 hai pubblicato il tuo primo album, Anatomia di una colluttazione. Come mai la scelta di questo titolo? Il titolo nasce dal desiderio di analizzare bene cosa succede quando finisce una storia d’amore importante. Anatomia è il termine che indica lo studio minuzioso del corpo umano, mentre la colluttazione è uno scontro fisico. Avevo in testa l’idea di uno scontro-incontro tra due persone e la scelta del titolo mi serviva a tradurre l’idea dell’album. La foto di copertina con la mia immagine frammentata invece si comprende solo arrivando alla fine del disco: se nelle prime 9 tracce si racconta dello scontro tra due persone che si amano, in Le poesie sulla sedia, l’ultimo brano dell’album, all’improvviso si capisce che la colluttazione sta avvenendo tra me e me. Solo dopo che abbiamo guardato dentro noi stessi e abbiamo analizzato la situazione nel dettaglio, sono convinto che siamo pronti per iniziare una relazione e finalmente guardare l’altro.

In questi anni hai vinto tantissimi premi e riconoscimenti. Qual è stato quello che ti ha fatto più piacere ricevere? Ho sempre vissuto ogni riconoscimento con grandissima gioia, ma quello che per me ha significato davvero molto è sicuramente il Premio Mia Martini, che ho vinto nel 2013 in qualità di autore della canzone “Il tuo respiro”, interpretata da Rosa Chiodo.

Esiste invece una canzone di qualche autore che quando hai sentito la prima volta hai pensato “avrei voluta scriverla io”? Almeno tu nell’universo. Ero molto piccolo e quando l’ho sentita la prima volta ho pensato: “questa è la canzone più bella del mondo e della storia!” Tutt’oggi penso sia così, perché quando l’ascolti ti colpisce direttamente al cuore! Il segreto di questa canzone è il fatto di sembrare semplice e di grande fruibilità, ma in realtà è molto complessa per composizione e scrittura. Credo sia davvero un pilastro della musica italiana.

Hai avuto modo di formarti con tantissimi professionisti: Francesco Gazzé, Pier Cortese, Bugo, Mogol, Francesco Bianconi, solo per citarne alcuni; chi tra loro ti ha trasmesso di più e chi invece ha deluso le tue aspettative? Riccardo Senigallia (cantautore romano, fondatore dei Tiromancino) è la persona che mi ha trasmesso di più e che mi ha dato tantissime dritte sulla scrittura. Gli spunti di riflessione che mi ha lasciato sono stati dei suggerimenti preziosi che ho messo in pratica per la scrittura del mio disco. Ho conosciuto tanti altri professionisti e ognuno di loro mi ha trasmesso qualcosa, non c’è stato ancora nessuno che abbia deluso le mie aspettative.

Durante la quarantena non ti sei fermato un attimo: hai appoggiato iniziative importanti, come 100 palchi aperti per Emergency. Supportare una realtà così importante come Emergency mi ha reso davvero felice, l’ho trovata una cosa bella e giusta da fare. E poi è stato bello sentirsi parte di un grande abbraccio collettivo, perché hanno aderito tantissimi artisti napoletani e campani, tutti uniti con Emergency, una realtà no profit che si batte per il diritto alla vita e alla salute di tutti gli esseri umani.

Hai progetti per l’immediato futuro? Con la mia etichetta discografica abbiamo lavorato alle riprese del videoclip Superpoteri e dopo l’estate uscirà questo nuovo singolo accompagnato dal videoclip. Per me si tratta di un lavoro davvero significativo, perché penso che questa canzone sia una delle più belle che abbia scritto in Anatomia di una colluttazione. E poi è stato girato in viaggio, in due terre che amo tantissimo, l’Abruzzo e la Sicilia. Emanuele Torre, il videomaker che l’ha curato, ha fatto davvero un ottimo lavoro. Non vedo l’ora di condividerlo con tutti!

Qual è il tuo sogno più grande da realizzare? Questa è una domanda difficilissima ma ti risponderò come disse Beyoncé: “My dream is to be happy!” Mi piacerebbe tantissimo poter suonare a contatto diretto con la natura, perché vivendo in città questo mi manca. E poi viaggiare: se riuscissi a coniugare le due cose per me sarebbe un grande viaggio. Ecco cosa sogno: un grande viaggio.

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La rivincita di Bugo: la recensione del nuovo album “Cristian Bugatti”

Non fatevi ingannare dal suo aspetto mite: dopo vent’anni di carriera nel circuito della musica alternativa, il cantautore novarese si è rotto i coglioni e ha deciso che è arrivato il suo momento

Prima di mettermi a scrivere questo articolo ho fatto un rapido refresh sulla sua vita precedente, prima cioè che avesse la geniale intuizione di partecipare al 70° Festival di Sanremo.

E ho scoperto che Cristian Bugatti, alias Bugo, vanta una carriera ventennale, fatta di canzoni in stile punk-grunge che hanno segnato il passaggio dalla canzone impegnata di fine millennio alla disillusione degli anni 2000. Bugo è stato uno dei primi autori indie della musica italiana e, anche se agli inizi della sua carriera pubblicava album con la Universal Record , non gli è mai fregato niente di diventare famoso. Ha continuato a cantare quello che gli pareva: Ne vale la pena, Pasta al burro e Io mi rompo i coglioni. Nel 2008 arriva la svolta elettronica con l’album Contatti. Il primo singolo estratto è C’è crisi: Bugo inizia a farsi conoscere anche dal pubblico mainstream, ma rimane sempre un po’ in disparte. Negli anni successivi si dà alle arti visive. Abbandona la musica per qualche anno, fino al 2015, quando si rimette a scrivere canzoni e a fare concerti in giro per l’Italia. Ma abbiamo dovuto aspettare Sanremo 2020 prima di capire davvero con chi avevamo a che fare.

Nessuno mi toglie dalla testa che la scena di Bugo che abbandona il palco del Festival, visivamente irritato dall’atteggiamento di Morgan, sia stata una montatura geniale per portare tutta l’attenzione su di un brano che di sanremese aveva ben poco. Ma che Bugo si fosse rotto i coglioni (vuoi per Morgan, vuoi per il pubblico che non lo ha mai capito fino in fondo) mi è diventato palese nel momento in cui ho ascoltato il suo nuovo album.

E qui finalmente vi parlo di questo gioiellino.

Cristian Bugatti. Lo ha intitolato così, semplicemente firmandosi con nome e cognome. Il disco è uscito il 7 febbraio 2020 per la Mescal, etichetta discografica indipendente fondata da Valerio Soave e Luciano Ligabue. Nella foto di copertina Bugo è seduto su una sedia; le braccia penzoloni e il volto serioso non lasciano adito a dubbi: a 47 anni Cristian Bugatti ha deciso che era arrivato il momento di prendersi una rivincita, pubblicando il suo nono album in studio, come nove sono le tracce che compongono l’ album, “classico, ma molto 2020”, ha dichiarato lui stesso alla rivista Leggo.

La tracklist

Quando impazzirò – Non mi ha fatto impazzire la scelta di questa canzone in apertura. Ma il motivetto allegro e le esternazioni nonsense hanno il potere di entrarti in testa e di rimanerci a lungo.

Sincero (feat. Morgan) – In principio fu Morgan a fargli da spalla. Poi, dopo la memorabile lite, Nicola Savino ha preso il posto dell’amico traditore. E, a essere sincera, mi piace pure di più, anche se resterà per sempre impressa nei nostri cuori la versione galeotta di Morgan, che portò all’esclusione dalla gara e all’abbandono del palco da parte di Bugo in diretta televisiva.

Come mi pare – questo brano potrebbe diventare il prossimo tormentone estivo. Bugo sceglie il parlato alla Lucio Battisti e una melodia funk dal vago sapore dance. Il testo è un manifesto di intenti: ballo, mangio, rido e parlo come mi pare. Come piace a me.

Al paese – questa è decisamente la mia preferita. Una piccola poesia di 3.38 minuti nella quale Bugo descrive la vita di provincia, che scorre via tra pettegolezzi e banalità. Eppure, quando si lascia il paese, poi ci si ritrova a guardare l’autostrada sognando di ritornare.

Che ci vuole – Canzone-profezia? Fate voi: Che ci vuole a tirarsela un po’/ basta dire che Sanremo fa cagare/ che ci vuole a diventare famosi/
basta un vaffanculo in tv
.

Fuori dal mondo – Quando l’ho ascoltata la prima volta me ne sono innamorata subito. Una dichiarazione d’amore alla sua donna in pieno stile Bugo. Vi metterà subito di buon umore!

Mi Manca (feat. Ermal Meta) – Lacrimoni dall’inizio alla fine. Probabilmente se fosse andato a Sanremo con questa canzone e con Ermal Meta avrebbe stra-vinto.

Un alieno – In questo brano c’è una semplice ammissione: sono un alieno. Che ci faccio su questo pianeta?/ Sono un alieno/ ma non mi dite che questa è vita/ tra le zanzare e ritmo latino/ il cocktail con l’ombrellino...

Stupido, eh? – La traccia più lunga del disco (6.12 minuti) conclude l’album alla grande. Il riferimento a Battisti (le tastiere, la chitarra, la voce) è ancora più evidente, ma alla fine dell’album sono certa che Bugo vi avrà conquistato con la sua ironia e il non prendersi mai troppo sul serio.

E voi, lo avete già ascoltato? Cosa ne pensate del nuovo album di Bugo?

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Lucio Leoni torna con “dove sei pt.1”

Brillante, eclettico e visionario. Lucio Leoni è il cantautore di cui tutti abbiamo bisogno: riesce a spaziare con ironia e fantasia dalla tradizione popolare al rap, dal folk alla canzone d’autore, approdando a uno stile proprio e riconoscibile che sintetizza poesia, teatro-canzone e sperimentazioni sonore.

Se siete alla ricerca di un disco che vi conquisti sin dal primo ascolto e in cui ritrovarvi, allora Dove sei pt. 1 farà sicuramente al caso vostro. Anticipato dal singolo Il sorpasso, Dove sei è il capitolo finale di una trilogia iniziata con Lorem ipsum – Gli spazi comunicativi (2015) e proseguita con Il lupo cattivo – Il bosco da attraversare (2017). Questa volta la scelta del titolo dell’album non ci fornisce alcuna indicazione sul suo contenuto: nessun segno di interpunzione, né un sottotesto con riferimenti spaziali. Ma ascoltando i brani del nuovo album di Lucio Leoni sono tantissime le domande che mi viene voglia di fargli: in attesa dell’uscita di Dove sei pt.2 ( autunno 2020) lo abbiamo intervistato e ci ha raccontato i retroscena del suo nuovo lavoro. Mettetevi comodi!

Dove sei è una domanda provocatoria o una risposta artistica? Mi piace lasciare molto spazio all’interpretazione di chi mi ascolta. Dal mio punto di vista questo titolo è una risposta a tutte le domande che ci sono dentro, ma è comunque un gioco provocatorio, perché le risposte che do io non sono altro che ulteriori domande…

Allora adesso te lo chiedo io. Dove sei? Bella domanda! E’ buffo, perché magari fino a due mesi fa avevo un’idea più precisa, ma adesso è cambiato tutto e bisognerà abituarsi a ritmi e giornate diverse, per cui è tutto un po’ da ripensare. Diciamo che artisticamente, arrivato ai 40 anni, credo di essere a un punto in cui comincio a identificare una sorta di stile e ad avere chiari i miei punti di forza e i miei punti deboli.

Sui social hai simpaticamente scritto “In piena fase 2 esce Dove sei pt. 1. In piena fase 3 uscirà Dove sei pt. 2. Sempre un passo indietro”. Ti senti sempre un passo indietro a tutto il resto? E’ il mio modo per dire “resto umile” che va tanto di moda e mi fa ridere tanto. Mi piace sdrammatizzare sempre su tutta la linea, cerco di non prendermi mai veramente sul serio. Nonostante la musica abbia un’importanza gigante nelle nostre vite alla fine non dobbiamo mai dimenticare che è sempre un gioco.

Nel tuo album hai collaborato con C.U.B.A Cabbal, Francesco di Bella e Andrea Cosentino. Come sono nate queste collaborazioni? Andrea Cosentino è un amico che conosco da tempo. Mi è capitato di vedere un suo spettacolo nel quale snocciolava questo monologo che è il testo di Mi dai dei soldi. Ne sono stato folgorato subito e a fine spettacolo gli ho detto che il testo era clamoroso e volevo farne una canzone. Anche Francesco è un amico, ci conosciamo da un po’ di anni. Mi serviva una voce che avesse una profondità infinita e la sua era perfetta per Dedica. Il fatto che abbia voluto partecipare mi ha reso davvero orgoglioso. C.U.B.A invece non lo conoscevo, ma sono un grande amante della cultura hip hop e lui è uno dei miei idoli adolescenziali. Dopo aver trovato il suo numero (in maniera molto losca) l’ho chiamato e gli ho chiesto questo favore. Evidentemente si sarà mosso a compassione, perché sennò non si spiega…

In che senso hai trovato il numero in maniera losca? Tramite “amici di amici, di amici, di amici”… il metodo delle grandi separazioni!

Ne il Sorpasso, Dedica e Atomizzazione riprendi dei temi già presenti in A me mi: c’è questa presa di coscienza dell’essere diventati adulti (ma non troppo) e di essere un nativo analogico che vive tra nativi digitali, ma non è (di fatto) né l’uno e né l’altro. Secondo te, questa generazione di mezzo alla quale anche tu appartieni è più privilegiata (perché ha una visione delle cose più ampia) o è semplicemente più sfigata (perché è un ibrido)? Siamo sicuramente una generazione super fortunata, ma a ogni decade ci è cascato il mondo intorno. Quando avevo 10 anni è stato abbattuto il muro di Berlino, a 20 sono venute giù le Torri gemelle; a 30 anni è esplosa la più grande crisi finanziaria e adesso, alle soglie dei 40 è arrivata la pandemia. Forse non siamo una generazione fortunata dal punto di vista della stabilità del processo socio-economico, ma non mi sento di dire che siamo sfortunati, perché dopotutto viviamo in maniera privilegiata rispetto ad altre generazioni.

Come hai vissuto questo periodo di quarantena e quale futuro vedi per la musica? L’ho vissuto con fatica, è stato un periodo in cui non sono riuscito nemmeno a mettermi in una posizione ricreativa e produttiva. Per il futuro sono un po’ preoccupato, credo che ci troveremo tutti ad affrontare delle lotte per ricostruire un tessuto collettivo del mondo dello spettacolo. Sarà dura, ma si dovrà cominciare a discutere di politica della musica e di forme di tutela che di fatto non ci sono: la pandemia ha solo rivelato queste falle nel sistema.

La prima parte del disco è uscita l’8 maggio 2020. La seconda parte arriverà in autunno. Come mai hai deciso di dividere l’uscita del disco in due parti? La decisione di dividere l’album nasce dalla necessità di alleggerire e spezzare il disco, che poteva risultare un po’ troppo prolisso nel suo insieme. Abbiamo quindi pensato di spezzare l’album per conferire maggior respiro e lasciar sedimentare le canzoni un po’ di più.

Cosa dobbiamo aspettarci dalla seconda parte del disco? Il disco è concepito come unico, anche se diviso in due parti, quindi le tematiche e gli immaginari sonori saranno simili. Ma ci sono delle canzoni molto belle che mi è dispiaciuto non poter tirar fuori adesso, perciò sono molto curioso di vedere come verranno accolte.

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Mia Martini, nel ricordo di Mimmo Cavallo

Discovery Woman è la rubrica dedicata alle artiste più rivoluzionarie e che hanno lasciato un’ impronta indelebile nel mondo della musica. Questo mese è dedicato a Mia Martini: a 25 anni dalla sua scomparsa, oggi ripercorriamo le tappe più significative della sua carriera, grazie anche al ricordo di un suo caro amico, il musicista e cantautore Mimmo Cavallo.

Il primo ricordo che ho di Mia Martini risale all’infanzia. Una Fiat Uno rossa e un’ autoradio con la sua voce, mentre la piccola Monica canta tutte le sue canzoni a memoria. Poi ho anche un ricordo di quel 14 maggio 1995, quando fu data la notizia della sua morte al TG, dopo due giorni dall’avvenimento; sentivo i miei genitori parlarne con dispiacere e percepivo parole come “maldicenza” e “sfortuna” che arrivavano alle mie orecchie di bambina come sussurri. All’epoca non capivo i significati di queste parole, per me contava solo la voce di quella donna che avrei scoperto e amato qualche anno più tardi.

Quella donna era Mimì Bertè, nata l’ultimo giorno d’estate del 1947 a Bagnara Calabra, un piccolo paese di mare sulla costa calabrese. E basterà che voi teniate a mente queste due cose per capire che artista fosse Mimì: una voce temprata dal sale del mare, un’intensità interpretativa paragonabile alla nostalgia che ti assale quando finisce l’estate e la passionalità bruciante di una donna del sud, come il sole di luglio nelle ore più calde del giorno.

Mimì esordisce negli anni 60 come cantante yé-yé. Ma negli anni 70 è l’incontro con il produttore Alberigo Crocetta, fondatore del Piper, a segnare la grande svolta di carriera. Mimì smette gli abiti leggeri da ragazzina pop e diventa una gipsy girl. Crocetta le cambia anche il nome, non più Mimì Bertè ma Mia Martini. Nasce una stella: nel 1971 partecipa al Festival di Musica d’Avanguardia e Nuove Tendenze di Viareggio e ottiene la vittoria sulla PFM con la canzone Padre davvero.

Dalla Woodstock italiana al riconoscimento mondiale il passo è breve. Mia è inarrestabile, vince tantissimi premi e ottiene riconoscimenti anche in Giappone. Duetta con Charles Aznavour e instaura un sodalizio artistico e sentimentale con Ivano Fossati. Sono gli anni in cui Mia è all’apice del successo, ma a un certo punto qualcosa s’inceppa. La sua voce sparisce e nel 1980 subisce due interventi alle corde vocali, che modificheranno per sempre il timbro, diventato più roco e profondo ma più vicino al suo nuovo stile: non più zingaresco ma sobrio e mascolino. Un anno di assenza dalla scena, ma Mimì non si ferma e incide nuove canzoni. La sua partecipazione al Festival di Sanremo nel 1982 avviene in grande stile: con una canzone di Fossati, E non finisce mica il cielo, Mia Martini non vince, ma si aggiudica il Premio della Critica, inventato per lei proprio in quell’ occasione. Ma l’anno successivo decide di ritirarsi definitivamente. Qualcuno nell’ambiente musicale mal tollerava il successo dell’interprete calabrese, e già negli anni 70 aveva alimentato dicerie su presunti eventi negativi, capitati a persone che avevano a che fare con Mia. Le maldicenze erano diventate a tal punto insistenti, da minare la sicurezza ottenuta dai numerosi riconoscimenti nazionali e internazionali. Mia inizia a convincersi di portare davvero sfortuna e la sua autostima cade a pezzi: nel mondo dello spettacolo tutti pensano che porti “jella” e si tengono alla larga da lei. Ma qualcuno, invece, le resta accanto: Mimmo Cavallo, musicista e cantautore (nonché autore per Fiorella Mannoia, Zucchero e Loredana Bertè – solo per citarne alcuni) instaura con Mimì un rapporto di amicizia sincero, nel momento in cui tutti le voltano le spalle.

Mimmo, com’è avvenuto il primo incontro con Mia Martini?

Non mi ritengo un fatalista, ma ti racconto alcune belle coincidenze che sono avvenute prima che ci conoscessimo personalmente. Alla radio un giorno ho ascoltato “Padre davvero”, e ne sono rimasto folgorato. Ma ero solo un ragazzo, percepivo l’intensità di quel brano d’autore e la sua carica viscerale, ma non riuscivo a spiegarmi il perché di quel turbamento. Dopo molti anni vado a Roma per incidere il mio primo disco. Un amico mi convince a partecipare a una festa che si rivela una grande delusione. Mi ritrovo circondato da persone anziane, che recitano poesie e mangiano spaghetti in piedi, ma noto una giovane ragazza sui 18 anni che cattura subito la mia attenzione. Mi avvicino a lei e iniziamo a fare conversazione. Scopro che quella ragazza attraente è Olivia, la sorella di Mimì e le chiedo subito il numero di telefono. Ero intenzionato a conquistarla! Passano i giorni e finalmente, quando mi decido a telefonarle, mi accorgo di aver perso il numero…

Una storia d’amore finita ancor prima di cominciare…

Proprio così! Nel 1979 ero in studio per registrare il mio album “Siamo meridionali”. Dall’altra parte del vetro, mentre stavo cantando, vidi entrare una signora con un cagnolino in braccio che si sedette in un angolo ad ascoltarmi. A registrazione finita, chiesi al mio produttore Antonio Goggio -ma chi è quella donna?- La sua risposta mi lasciò di sasso: -E’ Mia Martini- Fu quella l’ occasione in cui finalmente ci presentammo. Ne nacque subito una bella amicizia, oltre all’occasione di lavorare insieme: infatti partecipò a tutti i cori di quel mio primo disco. In due mesi di lavoro, però, ebbi modo di notare che in presenza di Mimì tutti i musicisti si dileguavano con le scuse più varie. In sua assenza, invece, tutti si organizzavano per andare a mangiare insieme durante la pausa pranzo. Era così palese questo comportamento che mi venne spontaneo chiedere a Goggio come mai tutti si comportassero così nei confronti di Mia. Fu in quel momento che scoprì le ignobili dicerie sul suo conto.

Quando il vostro rapporto di amicizia è diventato più profondo, sei riuscito a capire cosa ti attraeva di lei e del suo modo di lavorare?

Quello che mi piaceva di lei lo avevo inizialmente intuito da ragazzo, al primo ascolto in radio di Padre davvero. La sua forza interpretativa era senza pari, ma lavorando al suo fianco ho avuto anche modo di percepire il suo mondo interiore e mi ci sono riconosciuto: lei aveva tutto un mondo magico ed esoterico che appartiene a tutti i figli del sud. Si tratta di un retaggio antico, fatto di “conti”, fiabe e favole, come quelle che ci raccontavano le nostre nonne davanti al camino. Questo mondo agro-arcaico che ci accomunava ci ha subito messi in sintonia. Un giorno mi chiese di fare una canzone sulla luna e io le scrissi un pezzo che spero venga inciso, perché mi hanno detto che esiste un provino che ancora non è venuto alla luce. Lei era davvero un’artista a tutto tondo, era fenomenale, ma i discografici (a torto!) la consideravano una semplice cantante.

Secondo te lei ha sofferto più per il suo sfruttamento commerciale da parte dei discografici o per le malelingue che la tormentavano?

Sicuramente per le malelingue, da quelle non c’è scampo. Lei ha subìto la cosiddetta”jettatura”, le si è incollata addosso quell’etichetta infame di jettatrice e a un certo punto ha iniziato a convincersi davvero che portasse sfortuna. Ha perso tutte le sue sicurezze e si è isolata sempre di più, quando invece aveva bisogno di circondarsi di persone che le volessero bene davvero e la rispettassero come persona. Nonostante tutto, quando è tornata a cantare, Mia lo ha fatto come sempre alla grande. Ricordo che gli ultimi quattro concerti prima della sua morte abbiamo fatto il botto di pubblico. Era in forma, ma le cicatrici che si portava dietro sono venute presto a riscuotere il conto di quegli anni trascorsi in isolamento.

Cosa ricordi dei suoi ultimi giorni?

Ricordo che si sentiva invincibile, ma la realtà era ben diversa. Il mio rimpianto è quello di non averla aiutata durante il trasloco. Pochi giorni prima che morisse, si era trasferita a Cardano del Campo. Nessuno di noi ha pensato di aiutarla con tutti quegli scatoloni. Si sarà sentita persa. E sola. Probabilmente anche solo una telefonata avrebbe potuto fare la differenza. Purtroppo lei non aveva un affetto fisso, mi diceva sempre che aveva bisogno di radici, di sentirsi radicata. Insomma aveva bisogno di sentirsi amata.

Qual è il ricordo più bello che ti viene in mente quando ripensi a lei?

Loredana e Mia a Roma avevano un amico mecenate, proprietario di una casa bellissima. In sua assenza, una sera io e Mia siamo in questa casa pronti per cenare. A un certo punto la sento parlare al telefono di vestiti da sposa e le chiedo chi sia. Mimì mi sussurra: “E’ mia sorella Olivia, si sposa!”. A quel punto le chiedo di passarmela. Il pallino di Olivia mi era sempre rimasto, ma Mia non ne sapeva nulla. “Ma la conosci?” Le dico di si, e la convinco a passarmela. “Pronto, Olivia, ti ricordi di me? Sono Mimmo Cavallo, ci siamo conosciuti a quella festa noiosa, tanti anni fa”. Olivia mi risponde secca: “No. Me ripassi mi’ sorella?” Dopo quella pessima figura Mimì mi ha preso in giro per giorni, e mi ha detto di non ripeterle più la storia della festa. Qualche tempo dopo ci siamo ritrovati tutti a Taranto e dopo le prove siamo andati a mangiare in un ristorante. In quell’ occasione c’era anche Olivia con il marito. Mimì mi mise subito in guardia: “Guai a te se ritiri fuori quella storia dove hai conosciuto mia sorella!”. Ci mettiamo seduti e a un certo punto della serata esordisco con “Senti Olivia, devo dirti una cosa…” Mia stava per interrompermi, ma ho continuato: “Olivia, ma ti ricordi di quella signora bionda che ci ha chiesto ventimila lire per partecipare a quelle serate tra artisti?” Mia, a quel punto, è scoppiata in una risata fragorosa e ha detto: “Ma quella era mia madre!”

Adesso, però, tocca a voi dire la vostra: amate Mia Martini? A quale canzone siete particolarmente affezionati?

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The Concertone, l’evento Instagram del Primo Maggio

L’evento musicale, ideato da Matteo Bortone e Francesca Romana D’Andrea, riunirà in diretta Instagram artisti nazionali e internazionali per sostenere due cause benefiche

Un po’ come quando il Festivalbar scandiva il ritmo tra l’inizio e la fine dell’estate per noi ragazzini degli anni 90. Da quando non c’è più, l’estate non è più la stessa. E quest’anno, in tempo di emergenza da Coronavirus, anche il concerto del Primo Maggio a Roma non sarà lo stesso. La trentesima edizione dell’evento organizzato da CIGL, CISL e UIL trasloca da Piazza San Giovanni alla diretta televisiva di Raitre.

Ma la musica non si ferma in Tv: su Instagram arriva l’iniziativa di due brillanti speaker radiofonici di Radio Kaos Italy, Matteo Bortone e Francesca Romana D’Andrea. I due ragazzi hanno dato vita a The Concertone, un evento live che non sarà assolutamente un’imitazione dello storico concerto di piazza San Giovanni, ma un momento di divertimento e di musica che sfrutterà una “piazza” virtuale.

The Concertone, l’evento Instagram del Primo Maggio

Venerdi 1 Maggio, dalle 18 alle 21 sull’ account Instagram @theconcertone si svolgerà un evento di musica live che coinvolgerà più di 10 artisti nazionali e internazionali. Tra questi Daniele Coletta, Cristiano Turrini, Tommaso PrimoMatteo Sica, Federico Proietti, Don Cash, Jorge Kandel da Sevilla e Josh Wantie da Londra. Ci saranno anche interventi ed esibizioni di ospiti noti, come l’attrice e cantante Giulia Luzi e il duo Jas&Jay con un live dj-set.

“L’intento del The Concertone è quello di portare la musica live anche su Instagram in una giornata in cui solitamente siamo abituati a stare tra amici, sotto ai palchi d’Italia, nei parchi, con tanta musica dal vivo”, affermano Francesca Romana D’Andrea e Matteo Bortone (in foto) 

Musica e solidarietà

Oltre a essere un momento musicale, The Concertone sarà anche un evento di solidarietà: “Abbiamo deciso di sposare due cause benefiche – sottolineano i due ideatori del The Concertone – aiutare gli amici di The Race Club, un locale di musica live a Roma che rischia di chiudere, con delle donazioni che inviteremo a fare durante tutto l’evento. E poi Art Bonus: tramite dichiarazione dei redditi -o spontaneamente via Iban- sarà possibile supportare con una donazione, i teatri d’Italia.

E voi, durante questa quarantena, cosa avete in programma per la Festa dei lavoratori? Segnalateci pure altri eventi o iniziative interessanti!

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Rising Sounds: Yato cantautore electro vocal

Rising Sounds è la rubrica di SLQS dedicata agli artisti emergenti!

Yato è il fiorentino Stefano Mazzei, musicista e cantante solista della scena rock/pop e elettronica. Educatore per bambini e collaboratore di iniziative editoriali, legate al mondo della letteratura, Stefano non ama definirsi un cantante “preciso”. Eclettico e travolgente, è sempre alla ricerca di una dimensione di libertà che possa tradursi in musica. Ci ha raccontato di sé, dei suoi progetti attuali e delle sue ambizioni future.

Quando hai deciso che avresti fatto il cantante? Non sono mai stato un cantante “preciso” e ti spiego perché. Ho iniziato a studiare canto lirico, ma durante quei 3 anni facevo anche crossover e hard rock. Avendo altri interessi sono sempre stato un po’ stralunato, mi piaceva fare cose improbabili con la voce. Diciamo che la consapevolezza del “me” cantante l’ho percepita nel corso degli anni, nel momento in cui ho capito che potevo utilizzare la mia voce come uno strumento.

Com’è nata l’idea di chiamarti Yato? All’ inizio avevo un’ idea ben precisa del mio progetto. La mia musica unisce sonorità pop e rock, mescolate alle atmosfere elettroniche e al dubstep. Ho scelto la Y come versione stilizzata della I nella parola “iato” perché rappresenta visivamente, con le sue diramazioni, la non appartenenza a un nucleo vocale specifico. Lo iato viola l’idea metrica e la mia musica e le mie canzoni sono forme di iato che sentiamo e viviamo ogni giorno.

Hai detto che all’inizio avevi un’idea ben precisa su Yato. E adesso? L’enigma sul mio nome me lo sto portando dietro da un po’ di tempo! Alcuni produttori artistici ed esecutivi mi hanno fatto notare che il mio nome d’arte corrisponde anche a quello di un personaggio del manga Noragami. Questo ovviamente mi costa una penalizzazione in termini di risonanza sul web, quindi ho deciso che è arrivato il momento di cambiarlo. Ma il cambio si riverserà anche sulla produzione artistica: manterrò alcuni brani della precedente produzione, che avranno però un diverso arrangiamento e che sarà il frutto di questo periodo di transizione molto strano.

Ti riferisci a questo periodo di quarantena? Esattamente. Mi trovo in un periodo di standby dove prevale la voglia di suonare, ma le spinte interne, purtroppo, non trovano appiglio con la realtà che viviamo. E’ un periodo molto sofferente.

“La musica è la dimensione che mi caratterizza da quando sono nato, una dimensione di ricerca e di libertà che mi porta spesso in direzioni inaspettate, verso cose non per forza viziate dal mercato”

Come mai hai scelto l’elettronica e quali sono i tuoi artisti di riferimento? In realtà è stata l’elettronica che ha scelto me. Sin da quando ero ragazzino sentivo di subirne il fascino per la sua fusionalità di suoni e di generi. Per quanto riguarda invece gli artisti di riferimento, mi sento attraversato da progetti musicali più pop ma in cui si percepisce un lavoro di incontro fra sonorità distanti fra loro, come gli Arcade Fire. Anche in Italia negli anni 90 e inizi del 2000 abbiamo avuto un boom di gruppi che si esprimevano attraverso l’elettronica, come i Subsonica, i Bluvertigo e i 99 Posse. Purtroppo questo scenario musicale è rimasto lì, mentre nel frattempo hanno preso piede generi più legati all’ hip-hop. Ma su di me quell’impronta è rimasta forte.

Come nasce un tuo pezzo? Scrivi prima la musica o le parole? Non mi sento un autore tout court, di solito parto da qualcosa che mi colpisce, che sia una melodia o un giro di chitarra o ancora, da semplici note a caso sulle quali sento la musica che ho in testa.

Secondo te, quali sono le difficoltà legate al portare avanti un progetto musicale in Italia? Personalmente io ho incontrato difficoltà legate a una produzione strutturata. Ho lavorato anche con realtà diverse dalla Toscana, nel nord Italia e a Roma. Non avendo un produttore dietro sono riuscito comunque a portare la mia musica in giro per varie città italiane, come produttore indipendente, riuscendo ad avere un seguito. Purtroppo molte date sono state cancellate a causa del lockdown.

Oltre alle difficoltà legate alla produzione, quali sono le soddisfazioni che hai ottenuto finora? Le soddisfazioni arrivano sempre dal pubblico: quando suono davanti a perfetti sconosciuti e vedo che apprezzano i miei live o investono su di me, mi fa sempre un grande piacere. Suonare sul palco durante i festival o fare da spalla a gruppi famosi è sempre gratificante.

La tua canzone “Post” è stata scelta e mandata in onda su Firenze Tv. Di quale iniziativa si tratta? Post (guarda il videoclip) è una canzone di recente produzione che fa parte di un mini album di 8 canzoni. La versione mandata in onda da Firenze Tv è un nuovo arrangiamento di quel brano. Firenze Tv, invece, è una piattaforma digitale della Fondazione Teatro della Toscana, alla quale collaborano artisti del mondo del teatro, della musica e della letteratura (Stefano Accorsi, Pierfrancesco Favino, Vittoria Puccini, Giorgio Panariello, Edoardo Leo e altri). L’idea di questo canale è nata come rimedio alla necessaria chiusura delle sale a salvaguardia della salute pubblica. Sono stato coinvolto dal maestro Claudio Fabi (presidente e direttore artistico del Campus della Musica) -n.d.r. Claudio Fabi è il padre del cantautore Niccolò- con il quale sono in collaborazione per alcuni contenuti. La canzone gli è piaciuta molto e ha deciso di mandarla in onda.

Prima di salutarci, raccontaci dei tuoi progetti per il futuro. A cosa stai lavorando? Ho deciso di settare una parte della produzione legata al progetto Yato. I cambiamenti non riguarderanno solo il mio nuovo nome, ma ho proprio intenzione di ri-arrangiare i vecchi brani e suonarli con nuovi arrangiamenti a cui sto lavorando già da ora. Spero anche che la collaborazione con il Campus della Musica possa avere ulteriori sviluppi, ci credo fortemente e spero sia una buona parte per il futuro. Ma non solo: sto cercando di convincere il mio editore ad aprire una radio, dedicata a programmi e contenuti prettamente musicali. La radio non è solo una playlist di brani e in questo senso ho scritto dei format autoriali e ho registrato delle cose che mi piacerebbe trasformare in un programma vero e proprio.

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Discovery Woman: Patti Smith

Poetessa, cantante, artista impegnata. Ma prima di tutto donna: Patti Smith inaugura la rubrica “Discovery Woman” dedicata alle artiste più rivoluzionarie e rivolta a tutti coloro che hanno bisogno di ispirazione per rivoluzionare se stessi

C’è un momento, nella vita di una donna, nel quale ognuna di noi capisce di essere diventata donna. Diciamo addio alle sicurezze dell’infanzia, addio alle incertezze dell’adolescenza e prendiamo atto che quello sarà il punto di non ritorno. Per Patti Smith quel momento arriva a 19 anni: rimane incinta di un ragazzo più giovane di lei ma è troppo povera e insicura per tenersi la bambina. Decide quindi di darla in adozione, assicurandola alle cure di una famiglia benestante e amorevole. Non la rivedrà mai più. Per la giovane Patti il momento della rinuncia alla maternità sancirà l’impegno di fare della sua vita qualcosa di importante. Con le cicatrici sul ventre e nell’anima sale su un autobus e parte per New York, che negli anni 60 è il centro nevralgico della rivoluzione culturale in America. Patti Smith non ha ancora chiaro che cosa le riserverà il futuro, ma sa cosa vuole: diventerà una poetessa.

Chicago, 30 dicembre 1946. E’ un lunedì notte. La bufera di neve ha paralizzato il quartiere di North Side, ma non Patricia Lee Smith, che viene alla luce proprio in quella notte di tempesta. La ragazzina con i capelli corvino, le mani lunghe e il fisico androgino è considerata poco attraente dal padre, il quale la indirizza agli studi magistrali affinché diventi insegnante, un buon impiego per una ragazza “bruttina” che di certo non si sposerà mai. La madre invece le insegna le preghiere e le legge le poesie di William Blake. A 16 anni le dona La favolosa storia di Diego Rivera. Patti inizia a sognare una vita bohemien come quella di Diego e Frida, ma solo a 20 anni avrà il coraggio di mollare il New Jersey per New York.

Senza soldi, senza casa e senza cibo Patti inizia a lavorare come cameriera in un ristorante italiano di Times Square. Tre ore dopo il suo debutto, rovescia un piatto di vitello al parmigiano sul completo in tweed di un cliente e capisce di non avere futuro in quella professione. I primi tempi dormirà in metro, nei cimiteri, per strada e anche nel bagno del negozio di artigianato etnico dove finalmente lavora come cassiera. E in quel negozio farà la conoscenza di Bob.

«1967: era l’estate in cui morì Coltrane. L’estate di Crystal Ship. I figli dei fiori levavano le braccia vuote e la Cina esplodeva l’atomica. Jimi Hendrix dava fuoco alla sua chitarra a Monterey. La radio AM suonava Ode to Billie Joe. Ci furono rivolte a Newark, Milwaukee e Detroit. Era l’estate di Elvira Madigan, l’estate dell’amore. E in quell’atmosfera mutevole, per nulla accogliente, un incontro casuale cambiò il corso della mia vita. Fu l’estate in cui incontrai Robert Mapplethorpe»
(Patti Smith, Just Kids)

Lui, Robert Mapplethorpe, ancora non sa che diventerà il più famoso fotografo del 900. Lei, Patti Smith, ancora non sa che diventerà la sacerdotessa del rock. Entrambi si innamorano e vanno a vivere insieme in un appartamento scalcinato e dal fitto basso, al 160, Hall Street. Lo arredano con mobili di seconda mano e con decorazioni che Robert crea con le sue mani durante le ore del riposo. Entrambi fanno lavori saltuari, cercano di risparmiare il più possibile e spesso si trovano a dover scegliere tra placare i morsi della fame con un sandwich, oppure spendere i soldi per tele e colori con cui fare arte. Dipingono, creano, si amano. Sono instancabili e sono felici.

– Oh, dai, fai loro una foto, disse la donna, rivolgendosi al marito un po’ perlesso. Sono sicura che siano due artisti. Forse un giorno saranno qualcuno. – Frena il tuo entusiasmo, tesoro. Non sono altro che due ragazzini- replicò il marito scrollando le spalle.

(Patti Smith, Just Kids)

Quei due ragazzini spiantati e senza soldi cambiano continuamente amicizie e abitazione. Scelgono di andare a vivere in una stanza del Chelsea Hotel e si circondano di artisti e intellettuali senza avere chiara la percezione di quello che accade intorno a loro. Sentono che il mondo sta cambiando e che loro sono la voce di quel cambiamento. Robert si dedica alla fotografia, Patti alla poesia e alla musica. L’idea di fare la cantante non l’aveva mai sfiorata, ma il suo bisogno di comunicare e di risvegliare la gente prevale su tutto.

«La mia missione è comunicare, risvegliare la gente, darle la mia energia e ricevere la sua. Ci siamo dentro tutti, e io reagisco emotivamente come lavoratrice, come madre, come artista, come essere umano dotato di voce. Tutti noi abbiamo una voce. Abbiamo la responsabilità di allenarla e di usarla»

(Steven Sebring, Patti Smith: Dream of Life)

Perché dovremmo ispirarci a Patti Smith?

  • Non è mai troppo tardi per realizzare i propri sogni: Patti Smith inizia a fare musica nel 1974, a ventotto anni. Oggi ha 74 anni ma continua a esibirsi (in barba a tutti coloro che dicevano fosse vecchia!) Nel 2007 è entrata a far parte della Rock and Roll Hall of Fame. E’ stata povera, ma è riuscita a farsi strada con le unghie e con i denti.
  • Dalle esperienze più dolorose che la vita ci presenta possiamo solo imparare: la vita della sacerdotessa del rock è stata un susseguirsi di lutti e abbandoni. Ma anche dopo aver annunciato l’abbandono dalle scene, Patti Smith ha ripreso a suonare, dedicandosi a progetti umanitari
  • Non importa la meta, ma il viaggio che intraprendi per arrivare alla meta: la giovane Patti sognava di diventare una poetessa. Tra mille difficoltà è riuscita a realizzare il suo sogno diventando molto di più di una poetessa
  • I commenti sulla sua fisicità non l’hanno mai demotivata: il padre pensava che fosse troppo brutta per sposarsi. Molti critici l’hanno definita un “corvo” per via del suo look. Patti Smith si è sposata comunque, è diventata madre e ha continuato a vestirsi come le pareva. Dopo tutto lei è Patti Smith.
  • People Have the Power: non solo una canzone, ma un inno generazionale e un’ode alla consapevolezza: ognuno di noi può fare la differenza, anche se si tratta di una goccia nell’oceano.

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Musica da brividi (seconda parte)

Nella puntata precedente di “Musica da brividi” (che potete recuperare e leggere qui) abbiamo parlato di tre macabri episodi di cronaca, conclusisi in tribunale. Oggi, invece, concludiamo con tre vicende altrettanto inquietanti, sempre legate al mondo della musica e che tuttavia restano inspiegabili. Perché, se siete qui in cerca di una risposta, ricordate che la musica è sempre la risposta. (English version below)

La ballata di Rino

A parte Gesù che conosceva in anticipo i dettagli della sua morte, non esistono persone al mondo che abbiano profetizzato in maniera dettagliata il modo in cui sarebbero decedute. Questo però non vale per Rino Gaetano. Il cantautore italiano avrebbe scritto, intorno agli anni 70, una canzone che ha anticipato di un decennio il suo tragico destino. La ballata di Renzo è la seconda e definitiva versione di Quando Renzo morì io ero al bar. Dal testo -che è stato leggermente modificato rispetto alla prima versione- un certo Renzo viene investito da un conducente di una Ferrari; questi lo carica in auto in fin di vita e lo porta in tre ospedali di Roma (Il Policlinico, il San Camillo e il San Giovanni). Per varie motivazioni non viene accolto da nessuno e muore senza poter ricevere cure. Ma anche da morto Renzo non può essere seppellito, perché nemmeno al Verano (il cimitero di Roma) c’è posto per lui. Si tratta solo di una canzone che denuncia la malasanità, ma nel giugno del 1981 Rino è a bordo della sua Volvo 343. E’ notte e corre per le strade di Roma. Sulla Nomentana, però, perde il controllo del veicolo e si schianta contro un camion. La macchina ne esce completamente distrutta e anche lui è in fin di vita. Viene soccorso dall’ambulanza dei Vigili del Fuoco (che non è attrezzata per emergenze simili) e trasportato in ben 5 ospedali (tra cui il Policlinico, il San Camillo e il San Giovanni, come nella canzone di Renzo). Per diversi motivi nessuno di questi può accogliere Rino, il quale muore stremato dopo ore di agonia. Al momento della sepoltura il cantautore viene rifiutato anche dal cimitero del Verano, perché non ci sono posti disponibili. La triste profezia è del tutto compiuta e solo in un secondo momento la salma di Rino verrà spostata lì, grazie soprattutto all’intervento dei fan e dei familiari.

Nozze d’argento nella casa stregata

25 anni di carriera quest’ anno per i Foo Fighters, che hanno da poco terminato le registrazioni del loro decimo album. In una recente intervista a Rolling Stone Dave Grohl ha dichiarato che questo sarà un album decisamente fuori dal normale. O paranormale. Per la realizzazione del progetto, infatti, la band ha scelto di trasferirsi a Encino, in un’abitazione privata degli anni 40 nella San Fernando Valley, California. Fin qui nulla di strano. Se non fosse che la casa in questione si è rivelata da subito strana:-L’atmosfera che si respirava in casa era spenta ma il suono era pazzesco. Non è passato molto tempo prima che iniziassero a capitare delle cose strane. Dopo un’intera giornata di registrazione, ci siamo accorti che le tracce di chitarre erano completamente assenti- ha dichiarato Dave. Il leader dei Foo Fighters ha anche parlato di suoni inquietanti registrati a microfono aperto, chitarre scordate e intere canzoni sparite dai nastri. Dopo qualche giorno, grazie a un baby monitor, la band ha scoperto che nella casa di Encino avvenivano davvero fatti inspiegabili. Il problema è che Dave e compagni hanno dovuto sottoscrivere un accordo di non divulgazione del materiale, perché il proprietario sta ancora cercando di vendere la proprietà. Di conseguenza non sapremo mai se questa storia sia vera o falsa. Quel che è certo, è che la band ha cercato di terminare le registrazioni dell’album il più in fretta possibile (paura?) e che siamo tutti in trepidante attesa per l’uscita del nuovo disco, di cui ancora non si conosce la data di pubblicazione.

Lo spartito del diavolo

Questa è una storia in cui ci sono tutti gli elementi di un racconto dell’ orrore: ci sono le streghe, c’è un cimitero, ci sono i monaci cistercensi e c’è il diavolo che ci lascia lo zampino. Questa storia è una leggenda, ma come tutte le leggende ha un fondo di verità, testimoniato da diari personali tuttora conservati e da un affresco, sul quale è tracciato uno spartito musicale fuori dal comune. Questa storia si svolge nei pressi di Vercelli, precisamente a Lucedio. E’ il 1689 e nel cimitero di Darola le streghe celebrano un sabba in onore del diavolo. La leggenda narra che durante la celebrazione il diavolo arrivi per davvero e si impossessi dei monaci cistercensi che da quel momento iniziano a celebrare messe nere, dedicandosi a torturare e seviziare le novizie all’interno dell’ abbazia di Santa Maria di Lucedio. Passano circa 100 anni da quell’evento e finalmente un esorcista riesce a liberare l’abbazia dall’influsso demoniaco. Imprigiona il maligno nella cripta sottostante componendo una melodia come sigillo. Lo spartito si perde nel nulla, ma nel 1999 l’archeologo Luigi Bavagnoli lo ritrova casualmente nella chiesa sconsacrata di Santa Maria delle Vigne. L’affresco è posto all’ingresso della chiesa barocca e Bavagnoli lo fotografa senza prestarci molta attenzione, dimenticandolo in un cassetto. Qualche anno dopo scopre la leggenda di Lucedio e capisce che la sua è una scoperta importantissima: contatta una musicologa specializzata in musica liturgica e insieme scoprono che quel pentagramma è proprio il leggendario spartito, che ha la particolarità di essere bifronte. Infatti può essere letto in entrambi i versi e la leggenda narra che se suonato nel verso contrario (cioè da destra a sinistra e dal basso verso l’alto) la melodia prodotta può essere in grado di liberare il demone dalla sua prigionia. Ma non solo: gli studiosi decidono di sostituire le note con le lettere e scoprono che in quella melodia sono racchiuse tre parole: Dio, fede e abbazia. Ma ovviamente questa è solo una leggenda, una storia suggestiva da raccontare al buio, seduti davanti al fuoco di un camino, durante una gelida notte d’inverno.

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Creepy Music (part two)

In the previous episode of “Creepy Music” (which you can retrieve and read here) we talked about three macabre episodes, which ended in court. Today, instead, we conclude with three equally disturbing episodes, always linked to the world of music, which however remain inexplicable. Because if you are here looking for an answer, remember that music is always the answer.

The Ballad of Rino

Except for Jesus who knew in advance the details of his death, there are no people in the world who have prophesied in detail how they would have died. But this doesn’t apply to Rino Gaetano. The Italian singer-songwriter would have written, around the 70s, a song that anticipated his tragic fate by a decade. La ballata di Renzo (The Ballad of Renzo) is the second and definitive version of Quando Renzo morì io ero al bar (When Renzo died I was at the bar). From the text – which has been slightly modified compared to the first version – a certain Renzo is run over by a driver of a Ferrari; he loads him into his dying car and takes him to three hospitals in Rome ( Policlinico, San Camillo and San Giovanni). For various reasons it isn’t accepted by anyone and dies without being able to receive treatment. But even when he is dead, Renzo can’t be buried, because even at Verano (the cemetery in Rome) there is no place for him. It’s only a song that denounces medical malpractice, but in June 1981 Rino is aboard his Volvo 343. It’s night and he runs through the streets of Rome. On the Nomentana street, however, he loses control of the car and crashes into a truck. The car comes out completely destroyed and he too is dying. He is rescued by the ambulance of the Fire Brigade (which is not equipped for similar emergencies) and transported to 5 hospitals (including the Policlinico, San Camillo and San Giovanni, as in Renzo’s song). For various reasons none of these can accept Rino, who dies exhausted after hours of agony. At the time of the burial, the singer-songwriter is also rejected by the Verano cemetery, because there are no places available. The sad prophecy is completely fulfilled and only later will Rino’s body be moved there, thanks above all to the intervention of fans and family members.

Silver Anniversary in the Haunted House

This year the Foo Fighters celebrate their 25 years of career and they have just finished recording their tenth album. In a recent interview to Rolling Stone, Dave Grohl said that this will be a decidedly unusual album. Or paranormal. In fact, for the realization of the project, the band has chosen to move to Encino, in a private home from the 1940s in the San Fernando Valley, California. So far, nothing strange. Except that the house in question was immediately strange: –The atmosphere that was breathed in the house was turned off, but the sound was crazy. It wasn’t long before weird things started to happen. After a whole day of recording, we realized that the guitar tracks were completely absent – said Dave. The leader of the Foo Fighters has also spoken of disturbing sounds recorded with an open microphone, of forgotten guitars and entire songs disappeared from the tapes. After a few days, thanks to a baby monitor, the band discovered that inexplicable events were taking place in the Encino house. But Dave and his band have had to sign a non-disclosure agreement, because the owner is still trying to sell the property. Consequently we will never know if this story is true or false. What is certain is that the band tried to end the album recordings as quickly as possible (fear?) and that we are all anxiously waiting for the release of the new album, whose date of publication is still unknown.

The Devil’s Musical Score

This is a story where there are all the elements of a horror story: there are witches, there is a cemetery, there are Cistercian monks and there is the Devil. This story is a legend, but like all legends it has a background of truth, testified by personal diaries still preserved and by a fresco, on which an unusual musical score is traced. This story takes place near Vercelli, precisely in Lucedio. In the 1689, in the cemetery of Darola, the witches celebrate a sabbath in honor of the devil. The legend tells that during the celebration, the devil really arrives and takes possession of the Cistercian monks who from that moment they start celebrating black masses and torturing the novices inside the Saint Maria of Lucedio’ s Abbey. After 100 years, finally an exorcist manages to free the abbey from the demonic influence. He imprisons the evil one in the crypt below, composing a melody as a seal. The score was lost, but in 1999 the archaeologist Luigi Bavagnoli found it by chance in the deconsecrated church of Santa Maria delle Vigne. The fresco is placed at the entrance of the baroque church and Bavagnoli photographs it without attention, forgetting it in a drawer. A few years later he discovers the legend of Lucedio and realizes that his is a very important discovery: he contacts a musicologist specialized in liturgical music and together they discover that that pentagram is precisely the legendary score, which has the particularity of being two-faced. In fact, it can be read in both verses and, in according to the legend, if played in the opposite direction (from right to left and from bottom to top) the melody produced may be able to free the demon from his captivity. But not only: they decided to replace notes with letters and find three words are contained in that melody: God, Faith and Abbey. But this is only a legend, a suggestive story to tell in the dark, sitting in front of a fireplace, during a freezing winter night.

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